Questo, proprio, Fogazzaro non doveva farmelo. Una rinuncia alla vendetta, un’assoggettazione placida e remissiva ad un fato avverso, l’accettazione della sofferenza come martirio. Basta!

Io adoro la sua prosa, sono convinta che, come scrive un’anonima introduzione di un’edizione Mondadori 1951 lo scrittore vicentino “osò, oltre il piatto squallore di tanta narrativa veristica, un’intonazione nuova; e nel cogliere taluni aspetti profondi della natura umana trovò un linguaggio più mosso, più sensibile e duttile, talvolta musicale sino ad essere ricercato e prezioso; voce di una sensibilità inquieta o nostalgica…” eccetera.

Dicevo, io adoro la prosa di Fogazzaro, gli ideali di Fogazzaro, ma le sue trame risentono quasi (e sottolineo il quasi) sempre di un imperativo categorico morale di sapore kantiano da risultare soffocante al lettore che anela non già un lieto fine, ma almeno a una realizzazione delle speranze dei “poveri” personaggi. Invano speravo di trovare ciò nel suo romanzo giovanile, Daniele Cortis, pubblicato nel 1885 (e personalmente oserei ipotizzare che D’Annunzio, ne il Piacere, potrebbe averlo, in parte “copiato”).

La trama è la seguente: un giovane deputato alle elezioni regie del 1881, Daniele Cortis, orfano di padre, ama, riamato, la contessa Elena Carré che però giovanissima è convolata a nozze, da anni, solo per noia, con il siciliano senatore Carmine Di Santa Giulia. Costui, spregevole, continua imperterrito a domandare soldi alla famiglia della moglie – alla di lei madre, la contessa Tarquinia, e al di lei zio, il conte Lao.

Nel frattempo, Daniele Cortis scopre che la madre – che egli credeva morta – è in realtà viva, ma fu scacciata di casa allor quando si scoprì la sua illecita relazione con un giovane ufficiale. Costei, riapparsa, rivela al figlio di essere stata sedotta nientemeno che dal barone Di Santa Giulia.

Che disgusto, direte voi! La povera Elena (all’incirca trentenne) dev’essere sposata a un uomo che deve avere la stessa età della madre di colui che ama, cioè almeno sessant’anni. Ma fosse soltanto questo! Quando Daniele Cortis scopre che il barone Di Santa Giulia, violento marito della sua amata, sia anche il colpevole della sventura di sua madre… No, non va a duello ma addirittura accetta di cedergli dei soldi perché si salvi dai debiti.

Ma i debiti dello spregevole barone sono tanti tanti, e i soldi di Cortis non bastano. Così il conte Lao, zio di Elena, propone, in forma anonima, al barone Di Santa Giulia, la remissione di tutti i suoi debiti ad una condizione: che vada in America e lasci finalmente libera la nipotina.

Costei, però, in un’accettazione ferrea della morale che a me sa di kantianismo stantio, s’impone di seguire il marito nell’esilio, in virtù di quel sì detto, di malavoglia, all’altare, tanto tempo prima.

Abbandona così Cortis, che la sostiene nel suo proposito di martire laica, e mentr’ella accetta di varcare l’Oceano per andare in Giappone (sì, la meta viene cambiata all’ultimo), Cortis accetta la carriera parlamentare, figurandosi in un giorno, forse, di rivedere la sua amata “con il volto guasto dal tempo, bello per lui solo oramai”.

Ecco, se la prosa è di una sconvolgente bellezza, ed i momenti di lirismo sono d’una bellezza ascetica e suprema, la trama è di una tristezza immensa. Leggetelo quando siete felici, perché se lo fate quando siete tristi o nervosi già di vostro… Non so, potrebbe essere un esperimento anche quello.

Dal romanzo di Antonio Fogazzaro, Mario Soldati (già regista “fogazzariano”) trasse un film nel 1947