Durante questa campagna elettorale stiamo assistendo ad un imbarazzante silenzio e ad una preoccupante indifferenza da parte della classe politica rispetto ad uno dei fallimenti più iconici del neoliberismo occidentale. Sono trascorsi sei mesi dal fatidico giorno in cui il Credit Suisse – banca fondata da Alfred Escher nel 1856 a Zurigo – ha dichiarato bancarotta, favorendo così una sua acquisizione agevolata a beneficio dell’UBS. Il fallimento tecnico del Credit Suisse non ha solamente recato gravi danni reputazionali alla credibilità della piazza finanziaria Svizzera, ma ha anche messo in luce le profonde fratture del sistema politico ed economico della Confederazione.

Questo articolo si propone di riportare al centro del dibattito politico gli avvenimenti correlati al collasso del Credit Suisse analizzando tali questioni sia dal punto di vista politico che dalle prospettive delle autorità competenti. A tale scopo nei paragrafi seguenti cercherò di dimostrare la falsità della narrazione d’urgenza con cui si sono motivati ed in alcuni casi ratificati gli interventi statali del Consiglio Federale, dalla Banca Nazionale Svizzera (BNS), e dall’Autorità Federale di Vigilanza sui Mercati Finanziari (FINMA), ma anche dai partiti e dai loro rappresentanti.

In seguito all’insolvenza dell’istituto bancario, i rappresentanti dei partiti presenti alle camere federali, nonché alcuni membri della deputazione ticinese a Berna, hanno rilasciato dichiarazioni che a seconda della loro appartenenza partitica spaziavano dall’esprimere un profondo sconforto per il fallimento al manifestare un sostegno assoluto alle misure adottate dalle autorità. Alla luce della lunghissima documentazione pubblica relativa agli avvenimenti e agli indicatori economici che avrebbero dovuto sollevare più che un campanello d’allarme, ritengo che la narrazione di un “fulmine a ciel sereno” sia del tutto ingannevole.

I primi sintomi di una profonda crisi manageriale emersero nel 2019, quando l’istituto finanziario zurighese assunse un’agenzia investigativa per pedinare alcuni dei suoi dirigenti, tra cui l’ex capo del personale Peter Goerke ed il responsabile della gestione patrimoniale Iqbal Khan (successivamente passato all’UBS). Queste calamità portarono all’allontanamento del direttore operativo Pierre-Olivier Bouée, del responsabile della sicurezza Remo Boccali e con molte probabilità alle dimissioni dall’ex CEO Tidjane Thiam.

In aggiunta, a partire dal 2020, il Credit Suisse è rimasto coinvolto in una serie di investimenti rovinosi, tra cui quelli legati a Wirecard, Greensill Capital e Archegos Capital Management. L’istituto finanziario si è esposto per oltre 30 miliardi di franchi e ha totalizzato perdite superiori ai 5 miliardi di franchi. Come se non bastasse, nel corso del 2021 sono emerse alcune vicissitudini relative al passato, come ad esempio, le serie carenze in materia di antiriciclaggio. Un episodio emblematico in questo contesto è stato il prestito di 1 miliardo di franchi concesso alla Repubblica del Mozambico; è successivamente emerso che una parte significativa di questa somma è stata suddivisa in tangenti tra gli appaltatori del Mozambico e alcuni membri del personale bancario del Credit Suisse (scandalo Tuna Bonds). Allo stesso modo, nel 2022, la banca ha sofferto della più grande trafuga di notizie nella storia finanziaria Svizzera, con la divulgazione di informazioni riguardanti oltre 30’000 clienti, tra cui apparivano capi di stato, funzionari dei servizi segreti, signori della droga e uomini d’affari sanzionati, noti pubblicamente per il loro coinvolgimento in violazioni dei diritti umani, traffico di droga, corruzione, riciclaggio di denaro e altri reati gravi (scandalo Suisse Secrets).

Vi erano altresì numerosi indicatori economico-finanziari che preannunciavano lo scenario peggiore. A partire dal gennaio 2022, il valore azionario del Credit Suisse è stato in costante declino, registrando i minimi storici dalla sua quotazione borsistica, e le scommesse sul fallimento della società (credit default swap) hanno raggiunto i livelli più elevati dal 2009. I dati ci mostrano anche che l’istituto zurighese aveva uno dei rapporti più bassi d’Europa per quanto riguarda la differenza tra il valore borsistico e il valore effettivo dei suoi possedimenti a bilancio (price to book ratio), significativi deflussi di capitale che ammontavano a 123 miliardi di franchi di fondi in gestione solamente nel corso del 2022, nonché una maxi-perdita di 7,29 miliardi di franchi nell’esercizio 2022 – la più significativa dal 2008.

Insomma, il fallimento di Credit Suisse era nell’aria, tanto che dopo 20 anni di partecipazione nell’azionariato della banca, nell’ottobre 2022, la società d’investimento americana Harris Associates ha azzerato la sua quota di maggioranza relativa. Tutti questi eventi ed indicatori dovrebbero dimostrare che la narrazione del “fulmine a ciel sereno” manca di solide fondamenta. Tuttavia, durante la conferenza stampa indetta dal Consiglio federale per annunciare le sorti del Credit Suisse, il presidente della Confederazione Alain Berset si è limitato a ribadire che una soluzione rapida a garanzia della stabilità era assolutamente necessaria. Questo messaggio è stato riflesso anche dalle dichiarazioni di Karin Keller Sutter (responsabile del Dipartimento federale delle finanze), Marlene Amstad (presidente della FINMA), e Thomas Jordan (presidente della direzione della BNS). Essi hanno enfatizzato che una temporanea o totale nazionalizzazione del Credit Suisse avrebbe comportato rischi maggiori per i contribuenti, poiché il processo di risanamento non poteva funzionare.

L’effetto sorpresa che ho precedentemente cercato di sfatare è chiave per comprendere le logiche secondo cui sono state applicate queste misure “necessarie” per evitare che i contribuenti fossero esposti a rischi maggiori. Al fine di concludere rapidamente l’operazione mediante l’emanazione di ordinanze d’urgenza, il Consiglio federale si è avvalso del diritto d’urgenza, utilizzabile “per far fronte a gravi turbamenti, esistenti o imminenti, dell’ordine pubblico o della sicurezza interna o esterna”. Per mezzo di questa procedura, l’acquisizione è stata concordata mediante un accordo tra Consiglio Federale, BNS, FINMA, Credit Suisse e UBS, senza la necessità di essere assoggettata in precedenza all’approvazione degli azionisti di UBS e dei rappresentanti dei cittadini a Berna.

Questa situazione ha portato all’acquisizione del Credit Suisse da parte dell’UBS per un modesto prezzo di 3 miliardi di franchi (contro una valutazione contabile di 45.3 miliardi di franchi a dicembre 2022). L’acquisizione diventa ancora più vantaggiosa se si considera che il Credit Suisse aveva ricevuto una garanzia preventiva a sostegno della liquidità pari a 50 miliardi di franchi poco prima del suo fallimento. Dall’altra parte, l’UBS si è ulteriormente assicurato 9 miliardi di franchi in garanzie per coprire possibili perdite del Credit Suisse, 100 miliardi di franchi aggiuntivi in garanzie di liquidità, e l’azzeramento di alcuni debiti per un valore di 16 miliardi di franchi (obbligazioni AT1).

Atteniamoci ai fatti. Da destra a sinistra non si è fatto altro che parlare di opzioni circoscritte e di potenziali conseguenze disastrose per l’economia e i cittadini nel caso di un fallimento o di un’alternativa all’acquisizione da parte di UBS. Siete veramente sicuri? Viviamo in un’epoca dominata da approcci tecnocratici, in cui la ricerca di certezza matematica è predominante, eppure, crediamo ad una tesi non supportata da alcun dato né contestualizzata in un orizzonte temporale per procedere ad un’adeguata valutazione di tale scelta. Oltre a ciò, rimane molta amarezza riguardo alla scarsa trasparenza con cui le nostre istituzioni hanno condotto il processo di selezione del fortunato acquirente. Perché non si è considerata l’eventualità di coinvolgere altre istituzioni finanziarie, ad esempio attraverso un approccio federativo delle Banche Cantonali Svizzere o mediante un intervento della PostFinance? Oppure, perché non si è valutato un approccio simile a quello inizialmente considerato nel caso del fallimento di UBS, che prevedeva l’apertura a capitali esteri?

I campanelli d’allarme erano presenti, le alternative anche. Ci sono voluti 167 anni ed una classe manageriale e politica che opera tra l’inconsapevole ed il servile per portare al fallimento quella che era la seconda istituzione finanziaria del Paese. Siamo governati da una cerchia di tecnocratici che negli ultimi trent’anni non ne hanno fatta una giusta. Da una parte questo fallimento rappresenta simbolicamente la fine di un’epoca storia di credibilità sistemica Svizzera nello scenario internazionale, dall’altra, il capolinea storico di un’istituzione il cui fondatore ha avuto un ruolo di primissimo piano nella costruzione della galleria ferroviaria del San Gottardo e nell’istituzione del Politecnico federale di Zurigo.

Simone Conti, candidato No. 4 al Consiglio degli Stati per Costituzione Radicale