9 marzo 2018. Matteo Salvini varca la soglia dei 45 anni, quattro giorni dopo un’inaspettata e travolgente vittoria del suo partito. Eh sì, si dice suo, poiché non è più il verdepadano logo bossiano ad averlo fatto trionfare quanto un blu forzista in campo bianco dal quale è scomparsa la parola Nord. Questa volta l’eurodeputato già onorevole alla Camera e forse futuro premier d’Italia, spegne le sue quasi cinquanta candeline con alle spalle ben 37 senatori e 73 deputati.

Salvini festeggia il proprio compleanno

Dopo quattro governi susseguitisi senza elezioni, il centro destra, dopo le ultime elezioni, probabilmente sarà la base per la nuova legislatura. Incognita cinque stelle permettendo, visto che i Grillini hanno conquistato praticamente tutto il Sud. Il punto, questa volta, è il sorpasso della Lega su Berlusconi, che con un 17% ha staccato di ben 3% (con la cui sola percentuale un partito entra alla Camera) il partito di Silvio, fermatosi al 14%. Chiaramente, è la coalizione a vincere, come ben dimostra, ad esempio, la vittoria di Fontana in Lombardia.

Ad esser lontani, sono tuttavia i tempi in cui il partito di un industriale milanese, con tre canali televisivi propri e un intero quartiere della Milano grigio industriale suo proprio, batteva, con il proprio nascente astro destroide alto borghese il neonato sole delle alpi indipendentista, antifascista e secessionista, per poi allearsi con esso in nome dell’identità, (prevaricante quella industriale ed economico- pratica su quella celtico-culturale propagandistica)  e creare la destra del duemila, non tanto contro il pericolo rosso (la cui memoria comunista spauracchio sovietico era ormai legata alla disastrosa sconfitta del ’48, per opera della democrazia cristiana) quanto piuttosto contro un antiliberismo socialista e un centro ormai sfaldato e ormai privo della propria eredità degasperiana.  Sostituitosi a quest’ultimo, il centro destra della fine degli Anni Novanta, dopo aver inglobato gli ultimi retaggi missini nazionalistici (i cui ormai retaggi fascisti scemarono con la visita di Gianfranco Fini in Israele e la di lui richiesta di perdono al popolo ebraico per i crimini fascisti e la conseguente uscita dal partito dell’erede diretta del duce, la nipote Alessandra, ormai tuttavia isolata), il centro destra, dunque, guidò il paese sotto l’egida dell’ormai impostosi Berlusconi. Sino al 2011, quando per una manciata di assenze, la fiducia al governo non fu votata, ed esso cadde.

Con il sottofondo dei carmina burana, in tutti i tg berlusconiani, i titoli d’apertura presentarono, nel novembre di quel fatidico anno, il rigido Mario Monti salire le scale di Montecitorio e inaugurare quell’era famigerata che, tra lacrime di ministre e austerità, previde il congelamento dell’età pensionabile, e del federalismo. Due punti sui quali la Lega, allora ancora Lega Nord, seppe insistere per la propria propaganda: dapprima scelse il secondo: il federalismo fiscale. Dopo la caduta del Governo Berlusconi e la chiusura dei tanto agognati Ministeri al Nord per il decentramento amministrativo previsto dall’articolo 5 della Costituzione, il partito federalista vedeva scemare il proprio sogno non già della secessione, quanto piuttosto quello del decentramento. Fu tuttavia un cavallo di battaglia cavalcato dall’allor neosegretario della Lega Lombarda, un giovane Matteo Salvini, che ad ogni comizio sosteneva che “l’Italia funzionasse come due scale, a due diverse velocità, l’una per il nord, l’altra per il sud.” Eppure, niente da fare, La Lega rimaneva un partito per fedelissimi, magari divisi tra i favorevoli e i contrari all’alleanza con Forza Italia. Alle elezioni del 2013, la Lega ottenne appena il 3%, complice il processo a Bossi, attuatosi nel frattempo per inappropriato denaro partitico e trasferimento fondi in Tanzania e la nascita di un nuovo partito, il Movimento cinque stelle, populista, guidato dall’ex comico Beppe Grillo. Salì Letta, più un governo tecnico secondo, che un governo veramente eletto, essendo allora l’Italia così stremata che il presidente della repubblica Napolitano non ritenne opportuno farla andare a nuove consequenziali elezioni. Poi Renzi, che si sostituì a Letta, pur non essendo eletto. Entrambi mantennero l’assai discussa legge Fornero, e dell’abolizione di questa la Lega fece il proprio nuovo cavallo di battaglia.

La svolta per il centro destra arrivò tuttavia con le Europee, nelle quali la Lega si presentò alleata dei nazionalisti euroscettici di tutt’Europa: dal Front National in Francia al Vlaams Belang nelle Fiandre, all’Alternative fur Deutschland in Germania, ovviamente tutti di estrema destra. Venne sfiorato (o meglio, considerato, visto che alla manifestazione di Roma contro il governo Renzi c’erano anche loro) il partito neofascista di Casapound, poi lasciato perdere per  il poco impulso sull’elettorato borghese e per bene.

Infine, tre anni dopo, la svolta discussa, sofferta e vincente: troncare ogni definitivo legame con la battaglia federalista, togliere il nome Nord dalla storica nomina del movimento, puntare sull’abolizione della Legge Fornero (la Lega fu l’unica a non votarla e la prima a battersi contro, in questo fu coerente), inglobare i forzisti del centro, da Berlusconi alla rediviva Meloni.

Assieme al Movimento Cinque Stelle, complice in questo dell’abolizione della Legge Fornero come punto comune con la Lega nel programma elettorale, la lega di Salvini risulta ora essere la forza trainante di destra d’Italia. E questa volta è stata essa ad inglobare i berlusconiani.

Resta da attendere, lasciando da parte, ancora una volta, la coerenza, le Larghe intese che, pena l’ingovernabilità, dovranno giungere.