Con concorrenza dei sistemi si intende la possibilità per i singoli Stati di organizzarsi nel modo più consono ed efficiente tenendo conto anche delle loro specificità: storia, cultura, costumi, caratteri. Ovviamente, anche per l’inettitudine delle classi dirigenti e un maggior o minor senso civico dei cittadini, vi saranno Stati meglio amministrati di altri, il che si traduce in istituzioni funzionanti o meno, in regimi fiscali e socialità ragionevoli e accettati od oppressivi, in forme di burocrazia più ostacolanti che utili, in debiti pubblici sopportabili o devastanti. Non è necessario fare esempi, conosciamo tutti la realtà dei singoli Stati europei.

Ma purtroppo mal si sopporta oggi lo stimolo che viene dal migliore, preferendo di gran lunga la protezione delle proprie debolezze. L’emulazione è sfortunatamente rivolta verso il basso. Vi è la volontà di tutto uniformare, di giustificare gestioni statali sempre più indebitate e stagnanti (che in tempi recenti suscitano pesanti anche se talvolta interessate e corporative critiche da masse popolari) tacciando gli Stati meglio amministrati quali esempi di crumiraggio, di approfittatori delle disgrazie altrui, di concorrenti sleali privi di sensibilità verso i terzi. Noi svizzeri in testa, brutti, sporchi (moralmente) e cattivi, vale a dire con istituzioni e amministrazioni che funzionano, fiscalità e socialità equilibrate e condivise e infine cattivi per definizione perché ricchi.

Ora l’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), nata con lo scopo di studiare le realtà economico-sociali dei Paesi membri (la Svizzera è stata fondatrice con diritto di veto mai esercitato, ricordiamocelo negli accordi con l’UE. Inutile pretendere di avere diritti se non si possono praticamente esercitare), è oggigiorno il braccio armato del G20, la riunione dei venti Paesi economicamente più importanti del mondo (la Svizzera più forte di alcuni membri è stata esclusa). Nello spasmodico impegno di tutto uniformare ed evitare la concorrenza con i suoi stimoli, l’OCSE su incarico del G20 e dell’UE con il pretesto di vedere, giustamente, come regolare fiscalmente le attività delle ditte operanti nell’economia digitale (le FAANG: Facebook, Apple, Amazon, Netflix e Google) ha pensato bene di formulare due proposte.

La prima prevede di spostare parzialmente la tassazione degli utili di società operanti a livello internazionale dalla sede nazionale ai Paesi dove i prodotti vengono venduti. Ad esempio la Nestlé pagherebbe imposte sugli utili non solo in Svizzera ma in tutti i Paesi dove vende i propri articoli. A vero dire nei dettagli la proposta è molto più complicata tanto che è già stata definita un mostro (le osservazioni formulate riempiono 3.000 pagine) e la signora Grace Perez Navarro, la funzionaria incaricata dell’OCSE, nella riunione di Parigi dello scorso novembre con i rappresentanti degli Stati interessati non ha potuto nascondere il proprio imbarazzo non sapendo rispondere in modo esaustivo alle chiarificazioni richieste. Tra l’altro nelle proposte viene inserito il concetto di utile giusto. Assurdo sia per l’impossibilità di definirlo economicamente sia per l’inconcepibile potere conferito a chi avrebbe diritto di fissarlo arbitrariamente.
La seconda proposta concerne l’introduzione di un’aliquota minima fissa di imposizione degli utili societari uguale per tutti i Paesi. Nuovamente l’espressione dell’uniformità, di gabbie che valgano indiscriminatamente per tutti, ignorando le facce della realtà.

Non sono uno specialista della materia, però il buonsenso mi suggerisce due riflessioni. La prima è che se qualcuno compera i prodotti di un’azienda straniera (magari gravati da dazi doganali) lo fa nel proprio interesse perché ritiene il prodotto conveniente e concorrenziale. La seconda riguarda la tassa sul valore aggiunto (IVA) obbligatoriamente al minimo del 15% nei Paesi UE (normalmente però oltre il 20%, mentre in Svizzera è del 7,7%). Quindi gli Stati interessati incassano già una bella fetta di imposte, nonostante l’importante rincaro del prodotto importato.

Non stupisce il fatto che la Svizzera, Paese esportatore, sia tra i più colpiti dal proposto sistema. Si parla di una perdita fiscale, difficile da quantificare oggi, che potrebbe arrivare a cinque miliardi di franchi annui. Ma anche nazioni esportatrici come la Germania, gli stessi Stati Uniti sembrano perplessi dinanzi al progetto. La signora Daniela Stoffel, segretaria di Stato per le questioni finanziarie internazionali presso il Dipartimento federale delle finanze (DFF), afferma che la Svizzera intende collaborare con altri Stati per «limitare i danni» e anche per ottenere che i vantaggi della nostra posizione non vengano completamente eliminati. Le affermazioni mi hanno raggelato. È mai possibile che anche qui come per le trattative con l’UE si parta rassegnati e, poco abilmente, lo si confessi ai media? Diversi sono gli Stati perplessi dinanzi alla mostruosità concepita dall’OCSE. Non potremmo tentare come svizzeri di metterci alla testa, anche con qualche rischio, di un fronte critico di intelligente opposizione senza sventolare subito la bandiera bianca?

Tito Tettamanti

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