Il 1. aprile Aung San Suu Kyi, icona della democrazia, ha vinto le elezioni Parlamentari in Myanmar, 22 anni dopo che la sua Lega nazionale per la democrazia è stata cancellata dai militari attraverso una schiacciante “vittoria elettorale”.


Prima del voto le immancabili malelingue affermavano che la donna, Premio Nobel per la Pace e rinchiusa in carcere e agli arresti domiciliari per quasi 15 anni, aveva ormai perso il suo carisma, fosse divenuta più che altro un simbolo, incapace di trascinare le folle. Malgrado si siano sbagliate, i commenti scettici non finiscono : “Certo, ha vinto. Ora deve dimostrare cosa è capace di fare.”

I Birmani sono andati alle urne per sostituire 45 deputati in Parlamento. Inizialmente erano 48, ma tre elezioni sono state annullate all’ultimo momento nel nord del paese, sempre in preda a violenti combattimenti.
Lo scrutinio ha costituito la nuova tappa di un’inattesa perestroïka condotta dal presidente Thein Sein, personaggio assai enigmatico. In 18 mesi, a capo di un governo civile l’ex generale ha fatto più riforme di quante il precedente regime ne avesse fatte in due decenni.
In questo modo Sein è riuscito a vincere una prima scommessa : sedurre l’Occidente, che per anni aveva fatto del Myanmar uno Stato oppresso. La levata delle sanzioni è ormai all’ordine del giorno e gli investitori occidentali sono pronti a entrare in scena.

Tuttavia la situazione rimane incerta. I detentori del potere sono divisi: da una parte c’è chi vorrebbe sottrarre il paese al controllo soprattutto economico da parte della Cina e riavvicinarsi agli Stati Uniti, per annullare le sanzioni che hanno colpito piuttosto duramente il paese.
Le riforme del presidente Thein Sein vanno in questa direzione. Il 23 aprile si terrà a Bruxelles una riunione dei ministri degli Esteri europei proprio per decidere di ridurre le sanzioni in Myanmar.
Dall’altra parte ci sono i filo-cinesi, contrari alle aperture democratiche. E’ il caso di Than Shwe, Capo del Consiglio di Stato per la Pace e lo Sviluppo, l’organo supremo del regime militare.

Tra i dissidenti c’è il sospetto che la vittoria di Aung San Suu Kyi sia stata permessa per controllarla meglio. Una teoria suffragata dal fatto che la giunta militare, assieme il Partito Unione Solidarietà e Sviluppo vicino al regime, mantiene l’80% dei seggi in Parlamento e non intende cedere il potere che ancora detiene.