Può un neurochirurgo credere in Dio? O, meglio, più specificamente, uno scienziato della mente, del cervello umano, uno che lungo i suoi 25 anni di carriera non ha visto altro che cervelli venire operati, tumore ai cervelli venire risolti o, alla peggio, cervelli spegnersi, cervelli danneggiati e, di conseguenza, morte celebrale e, quindi, la fine della coscienza umana (proprio come una televisione che si spegne, non importa quando buono sia stato lo show, dice lui stesso), ebbene può una tale personalità, arrivare a credere che ci possa essere una coscienza “altra”, che superi la morte celebrale e la morte fisica?

Eben Alexander oggi ha 69 anni. Nel 2008, a 54 anni, fu colpito da una meningite fulminante. Aveva il 2% di possibilità di sopravvivenza e, in ogni caso, la sua corteccia celebrale risultava irreparabilmente danneggiata. Ma, come in certi casi accade, avvenne il miracolo ed Eben rinvenne. Mentre scientificamente era improbabile che ricordasse i sogni o i fenomeni psichici avuti durante un catastrofico danneggiamento della corteccia celebrale, egli ricordava tutto. Con una vividezza incredibile. E così, scrisse un libro divenuto Besteller, primo nelle classifiche del New York Times.

S’intitola “Proof of Heaven” (su Amazon costa solo 5 euro), ovvero “Prove del Paradiso” e viene – non proprio opportunamente – tradotto in italiano con “Milioni di Farfalle”. La traduzione, al momento, è sold out. Perciò, se masticate bene l’inglese, prendetelo in originale. Il libro non chiede di credere. Semplicemente, descrive. Lo so, lo sanno tutti: non è più l’epoca dei miracoli. Eppure, in questo caso, siamo davanti a un neurochirurgo. Che dichiara esplicitamente di aver avuto una formazione religiosa solo per tradizione, di essere sempre stato scettico nei confronti dell’Aldilà (ma di aver gridato inconsciamente “God save me!” prima di cadere in stato vegetativo), e di non aver mai negato le credenze fideistiche ai pazienti che erano in stato terminale, soltanto per pietà.

Il libro alterna tratti biografici godibilissimi, all’esposizione di quello che Eben vide durante il suo stato vegetativo. E a me, personalmente, quello che attrae è la straordinaria similitudine con la Divina Commedia di Dante. Ora, Eben Alexander non cita mai il viaggio ultraterreno dell’Alighieri, né sembra averlo letto; ma nelle sue visioni c’è l’Inferno (una melma odorante di feci, vomito e sangue, con esseri mostruosi ed un battito cardiaco metallico che pervade ogni cosa) e c’è il Paradiso (una musica celestiale, la più dolce orchestra mai udita da orecchio umano, e fili d’oro che lo prelevano dalla bruttura infernale); c’è persino Beatrice (una donna dai gli occhi d’un blu oltremarino, dagli zigomi alti, e dalle trecce castano-dorate) che gli parla senza parlare, guidandolo in un mondo ultraterreno, così reale e, al contempo, così onirico, in cui persino i cani sono pieni di gioia nel giocare coi padroni. Non proseguo con un riassunto che non renderebbe giustizia.

Ovviamente, non è scritto in versi. Ma l’ultima analogia con Dante è il luogo dell’inizio del viaggio: Eben si ammala nella natia North Carolina, ma contrae il batterio in Israele, all’ospedale di Gerusalemme. Proprio come Dante, che inizia il suo viaggio nella capitale della Terrasanta.

Così come è difficile credere che una delle più alte opere dell’umanità, dedicata al mondo ultraterreno, sia pura invenzione, allo stesso modo perché negare la fiducia a un neurochirurgo che sceglie deliberatamente di negare le proprie credenze nichiliste, per spiegare al mondo quello che ha visto nelle esperienze di pre-morte?

Come spiega lo stesso autore, infatti, la maggior parte di tali esperienze (catalogate come NDE ovvero near-death experience) provengo da pazienti il cui cuore si ferma per un attimo, ma il cui cervello è intatto. A Eben accadde invece di ricordare in maniera assai vivida quello che non avrebbe potuto scientificamente ricordare, dato lo stato rovinoso in cui versava la sua mente.

Una speranza, quindi, come lo stesso autore afferma, che tutto non sia riconducibile all’arroganza delle neuroscienze che (anche attraverso la crudele pratica della vivisezione) pretendono di sostenere che, spento il cervello, finisce tutto. Ne siamo proprio sicuri?