Nell’ultima seduta di Gran Consiglio, il Parlamento ha discusso la petizione “Cervi e cinghiali, che disastro!”, affrontando la delicata questione tra la pratica di quest’importante attività produttiva e i danni della selvaggina arrecati alle uve coltivate.

La viticoltura affonda le proprie radici nella storia e nella tradizione dei nostro paese. La pianta della vite è portavoce di molti valori legati al territorio ticinese. In particolar modo volgiamo ricordare: la tradizione contadina, la cultura, la promozione turistica, l’economia di scala regionale, la valorizzazione del paesaggio, la produzione locale.
Il Ticino è uno dei più importanti Cantoni produttori vitivinicoli e rappresenta, a livello nazionale, il produttore di vini rossi per antonomasia. La viticoltura è presente nelle nostre terre da secoli. Gli oltre 1000 ettari di vigneti coltivati in Ticino sono attualmente coperti per oltre l’80% da vitigni di uve Merlot, assurto, col passare del tempo, a vero simbolo della vitivinicoltura cantonale.

La realtà vitivinicola ticinese è molto particolare e pregiata. I vigneti sono gestiti da oltre 3600 viticoltori, che, con grande passione e sacrificio, coltivano piccoli appezzamenti, sovente molto scoscesi, altrimenti destinati all’espansione delle zone boschive. Si tratta di terreni spesso discosti, che fanno parte integrante del paesaggio ticinese, sempre più apprezzato da turisti provenienti dalla Svizzera e anche da oltre confine.
Il problema sollevato dalla petizione è complesso e tocca interessi e sensibilità molto diversi, spesso contrapposti. Nel rapporto della commissione parlamentare ben si spiega come il Cantone favorisca (con misure pianificatorie) e incoraggi (con misure finanziarie) la posa delle reti di protezione.

Pur comprendendo il fine di questi provvedimenti, resta però la perplessità del risultato, finale,ovvero: un territorio viticolo che appare come un’addizione di recinzioni di diversa forma e fattura, che comporta per il privato ingenti costi, squalificando nel contempo le caratteristiche paesaggio (con recinzioni alte almeno 2 metri…) nelle zone non edificate.

Il paradosso è che i manufatti (seppur provvisori per questioni giuridiche) sono a tutti gli effetti definitivi. Il contesto paesaggistico dei vigneti viene snaturato, i filari di uva sono ingabbiati, e un’importante prerogativa della viticoltura, quella di mantenere e gestire un contesto riconosciuto come bene di cultura e tradizione, perde di significato.

Le proposte messe in atto scoraggiano di fatto la viticoltura di collina, importante elemento di connotazione del paesaggio ticinese. Notoriamente questi vigneti comportano maggiori costi di produzione e maggior lavoro, ma sono quelli che producono le uve (e quindi i vini) migliori. Proprio in collina, inoltre, le recinzioni sono al limite della realizzazione a causa dell’andamento irregolare del terreno e della forte pendenza. (tema peraltro già affrontato dal Cantone con la questione lupo-allevamento di ovini in montagna.)

Ricordiamo che il danno economico sta raggiungendo livelli altissimi; nella scorsa stagione si sono persi oltre 1000 quintali d’uva, che il cantone dovrà oltretutto risarcire. Parlando in termini qualitativi non ha inoltre senso acquistare uve altrove per compensare i danni della selvaggina. Viene infatti vanificata l’importante qualità del “terroir” che permette di definire e differenziare la specificità del territorio di produzione.

Riteniamo dunque corretto concentrare gli sforzi per ristabilire un equilibrio ecologico e faunistico ponderato, mediante una riduzione dei capi entro limiti naturali accettabili, favorendo e promuovendo prelievi di capi supplementari (ridefinizione delle bandite, periodi supplementari di apertura della caccia) con conseguente stanziamento della selvaggina entro i suoi confini naturali, lontano dagli abitati e dalle zone coltivate.

Lorenzo Orsi
deputato PLRT in Gran Consiglio