I nodi stanno venendo al pettine. Come c’era da aspettarsi e come la Lega e il Mattino avevano annunciato fin dall’inizio. Ma naturalmente erano tutte balle populiste e razziste.

Mercoledì gli operai del settore della posa del ferro per armature hanno manifestato contro il dumping salariale, conseguenza dell’invasione del mercato ticinese da parte di padroncini, artigiani e dittarelle italiane che non rispettano le nostre regole, non pagano né tasse né oneri sociali, né in Svizzera né in Italia, e possono pertanto permettersi di praticare tariffe dumping. Una concorrenza sleale il cui ovvio risultato è tagliar fuori gli operatori locali che, per cercare di rimanere almeno un po’ competitivi sul prezzo, devono decurtare drasticamente gli stipendi. O assumere solo frontalieri, in un gioco del cane che si morde la coda.

La manifestazione degli operai della posa del ferro è stato un evento relativamente modesto. Ma si tratta di un segnale forte, anzi fortissimo. Un po’ come i 27 bancari lasciati a casa dalla CPC che hanno dimostrato la scorsa settimana in via Zurigo. Si tratta di un segnale forte perché è la punta dell’iceberg. Qualcosa si è rotto. Si è rotta la pace sociale. Così comincia, e nessuno sa come finirà. Del resto il problema del dumping salariale e della concorrenza sleale, spesso con esiti “letali”, da parte di padroncini e distaccati lombardi non è certamente limitato al settore della posa del ferro. Molti altri potrebbero aprire il libro. Basta che qualcuno cominci. E qualcuno ha cominciato.

Il numero delle notifiche di breve durata (meno di tre mesi) presentate in Ticino da padroncini, distaccati, eccetera è esploso. Nel 2011 erano 15’300. Ciò significa che in due anni sono cresciute del 45%. Una crescita che l’evoluzione dell’economia ticinese non spiega in alcun modo. Queste 15’300 notifiche si sono tradotte in 630mila giornate di lavoro. Dati ufficiali, non della Lega dei Ticinesi. Se si immagina che una giornata di lavoro “valga” 800 Fr, ne consegue che ci troviamo davanti ad una cifra d’affari di mezzo miliardo, che è andata persa all’economia ticinese a vantaggio di quella d’oltreconfine.

La situazione è manifestamente insostenibile, e non c’era bisogno di particolari doti divinatorie per indovinare che prima o poi, più prima che poi, qualcuno avrebbe detto “basta”. L’inizio è una protesta circoscritta ad un settore e, malgrado tutto, sommessa. Educata. Ma l’effetto “palla di neve” è dietro l’angolo. E presto si scenderà in piazza anche contro l’invasione dei frontalieri. Lo sciopero degli operai della posa del ferro, dunque, ha rotto un tabù. Da adesso via, è possibile il diluvio.

L’abbiamo detto a più riprese: la libera circolazione delle persone ha portato all’invasione del nostro mercato del lavoro da parte di padroncini e frontalieri. I quali, da qualche anno, non colmano più una lacuna nell’offerta di manodopera. Semplicemente, si sostituiscono ai residenti, che restano a casa in disoccupazione prima ed in assistenza poi. I giovani ticinesi nemmeno riescono più ad entrare nel mondo del lavoro: ed infatti il numero dei ventenni in assistenza sta crescendo a velocità allarmante.

Si è tirata troppo la corda e adesso la pace sociale è minacciata. Poi la nefanda SECO, quella dell’ “immigrazione uguale ricchezza”, davanti ai futuri scioperi avrà un bel dire che “non risulta che…”, “dai nostri dati non emerge…”, “ma in base alle statistiche non si può affermare…”, “il bilancio della libera circolazione è positivo…” e le consuete fanfaluche.

La morale è sempre la stessa, ed è di una semplicità disarmante: o i residenti tornano ad avere l’accesso prioritario al nostro mercato del lavoro, o andiamo a finire molto male.

Lorenzo Quadri
Consigliere nazionale
Lega dei Ticinesi