[fdm] Ho sentito l’espressione “centro di competenze” centinaia di volte, ne ero affascinato, quasi ossessionato. E mi chiedevo: “Che cosa sarà?” anche se si faceva strada a poco a poco in me il sospetto – io sono per natura sospettoso – che si trattasse sostanzialmente di “aria fritta”. Suonava bene, questo sì. Ciò che scrive Ambrosini in questo interessante articolo va al di là del pensabile: “un ufficio con un direttore al 50%, un assistente ed una segretaria”. Avrà voluto scherzare? Simpatico burlone di un Ambrosini!


Ho letto attenta­mente il rapporto sulla proposta di creare un centro di competenze presso le Officine di Bel­linzona per capire di cosa concreta­mente si tratta, ed in particolare di cosa dovrebbe oc­cuparsi. Non è stata però un’impresa facile, dato che questo documento è tanto (inutilmente) lungo, quanto estremamente generico, vago e disper­sivo.

Proprio il contrario di come dovrebbe essere un rapporto che, per definizione, deve trattare un determinato argo­mento in modo dettagliato, conciso ed oggettivo, allo scopo di trasmettere al lettore tutte le informazioni necessarie attraverso un’esposizione chiara e comprensibile. A termine di paragone, il recente rap­porto di approfondimento sul master in medicina in Ticino è di sole 20 esau­stive pagine, mentre questo di ben 107. Visto che gli autori non mi risulta sia­no retribuiti un tanto a pagina, l’uni­ca spiegazione secondo me plausibile è che sia una maniera per nascondere la mancanza di contenuti concreti e di idee precise.

Ma cosa dovrebbe essere questo centro di competenze? Stringi stringi si tratta di un ufficio con un direttore al 50%, un assistente ed una segretaria, il tutto pagato dal solito Pantalone tramite un finanziamento ricorrente derivante, non si sa come, da sussidi legati alla politica economica regionale, per un costo totale di 400-500.000 franchi l’anno (le FFS non metteranno nulla). Da quanto (poco) si capisce, questo ufficio dovrebbe gestire e coordinare progetti di ricerca e sviluppo in ambi­to ferroviario, e addirittura nel rap­porto si auspica che le FFS dirottino diversi progetti già avviati con i poli­tecnici e le università d’oltralpe a que­sto centro di competenze, al fine di garantirgli uno slancio iniziale. Inol­tre, per finire «in bellezza», si lancia pure l’idea di costituire un istituto universitario svizzero di tecnica e ge­stione ferroviaria.

Senza voler entrare nel merito di quest’ultima proposta, e senza nem­meno voler ipotizzare perché ricercato­ri di Zurigo, Losanna o Basilea avreb­bero la necessità di far gestire un loro progetto dal Ticino, un punto è chiaro: serve la precisa volontà della dirigen­za delle FFS di puntare su Bellinzona; altrimenti non si batte un chiodo. La cosa assurda è che, analizzando le in­formazioni presentate con lo studio, risulta palese proprio il contrario:
i vertici delle FFS stanno lasciando mo­rire lentamente le Officine.

Vediamo perché. Nel rapporto si legge che il fu­turo del trasporto passeggeri saranno i treni a composizione fissa, treni come i TiLo o i TGV che per quanto possibile si riparano in stazione sostituendo le componenti guaste e solo successiva­mente in officina come convogli unici. Ma a Bellinzona questi treni non si possono riparare data l’assenza di un capannone abbastanza lungo per ospitarli (e l’idea di costruirne uno a Cresciano è stata abbandonata), così la manutenzione «pesante» dei TiLo viene già oggi effettuata a Yverdon. Nello studio però questa gravissima la­cuna competitiva non viene evidenzia­ta e si preferisce mascherarla sottoline­ando invece la possibilità di riparare le loro componenti. Si legge poi che le FFS investiranno prossimamente 70 milioni a Biasca per realizzare un cen­tro di manutenzione e intervento lega­to alla galleria di base dove lavoreran­no 80 persone, mentre per le officine di Bellinzona, dove lavorano circa 500 persone, si ricorda un investimento da 5 milioni. Da una parte un investimento di qua­si 1 milione ad impiegato, dall’altra di 10.000 franchi.

Se le FFS volessero rilanciare le officine di Bellinzona dovrebbero investire de­cine di milioni ogni anno negli ammo­dernamenti necessari, e non solo lo stretto
necessario per garantire quel minimo di operatività ad una struttu­ra vetusta e dotata di apparecchiature spesso degne di un museo. Nessuna illusione quindi, questo stu­dio soddisfa solo la necessità politica di mascherare che, dopo 5 anni dal primo tentativo di chiusura delle Offi­cine, di «concreto» all’orizzonte c’è solo un nuovo piccolo ufficio pagato dai contribuenti.

Athos Ambrosini, presidente distrettuale UDC Bellinzonese e Valli

(pubblicato nel CdT del 29.VII)