Il 2 novembre del 2004 il regista olandese Theo van Gogh venne b a r b a r a m e n t e assassinato da un integralista islamico con la doppia nazionalità marocchina e olandese a causa di un suo cortometraggio della durata di una decina di minuti, intitolato Submission, nel quale denunciava lo stato di sottomissione della donna nell’Islam. La sua scenografa, che da allora dovette vivere con la scorta di polizia e che ha finito con l’emigrare negli USA, era la parlamentare liberale di origine somala Ayaan Hirsi Ali: una musulmana che l’oppressione dell’Islam sulle donne l’aveva sperimentata sulla propria pelle, come aveva descritto nel libro La fabbrica dei figli.

Il 16 dicembre del 2004 un gruppo di politici ticinesi (Iris Canonica, Lorenzo Quadri, lo scomparso Umberto Marra, Giovanna De Ambrogi e il sottoscritto) scrisse all’allora direttrice del Festival del film di Locarno, Irene Bignardi, chiedendo di commemorare il regista e dare un segnale forte di difesa della libertà di espressione proiettando il cortometraggio in Piazza Grande, «invitando alla proiezione l’autrice della sceneggiatura nonché tutti quei nostri concittadini musulmani che sono a stragrande maggioranza difensori della libertà».

La risposta fu negativa. Dapprima si accamparono motivi di sicurezza e poi si disse – ma la cosa venne successivamente smentita dal «Corriere della Sera» – che il produttore aveva ritirato il film.

Se lo scopo dell’assassino di van Gogh e dei i suoi mandanti indiretti (cioè gli islamisti che – Corano alla mano – predicano l’odio contro l’Occidente in buona parte delle moschee europee quasi tutte in mano ai Fratelli musulmani e ai salafiti) era quello di terrorizzare chiunque volesse criticare l’Islam e assestare così un duro colpo alla libertà di espressione, tale obiettivo in quel caso fu raggiunto.

Pochi giorni fa una persona di Basilea che ha appreso la notizia della prossima votazione ticinese sull’iniziativa antiburqa grazie a un servizio apparso sulla «Weltwoche» del 15 agosto, mi ha scritto esprimendo l’augurio che l’iniziativa venga accolta e mi ha inviato un suo libretto edito nel 2010 intitolato Die talibanisierte Schweiz im Jahre 2022 . Un libretto assai critico verso l’Islam. Heidi Hué: questo il nome dell’autrice che figura sul libro e che ha firmato la lettera che ho ricevuto. Ma l’interessata mi ha precisato che si tratta di uno pseudonimo. «Se avessi firmato con il mio vero nome – ha aggiunto – sarei in pericolo di morte qui nell’ormai ampiamente islamizzata Basilea».

Ecco a che punto siamo arrivati, grazie anche a quei politici «politicamente corretti» che per ignoranza, o ingenuità o interesse corteggiano gli islamisti e difendono i loro simboli di oppressione della donna (come il burqa ma anche il semplice velo) tacciando di islamofobi e razzisti coloro che invece, prendendosi magari qualche rischio, si battono per cercare di far aprire gli occhi alla gente sui pericoli per l’Occidente di un’ideologia totalitaria (che nel museo della storia sta prendendo il posto del nazismo e del comunismo), razzista, sessista, misogina, cristianofoba, ebreofoba ed omofoba (a tal proposito segnalo l’illuminante articolo del gesuita egiziano Samir Khamil Samir pubblicato nel «Giornale del Popolo» del 23 agosto scorso).

Ho pensato a questi due episodi quando in questi giorni ho letto che per giustificare l’ammissione al Festival locarnese di un film sull’ex terrorista non pentito delle Brigate Rosse, Giovanni Senzani, si è anche tirata in ballo la libertà d’espressione. Già, tanto con Senzani non si rischia (più) niente. Se i dirigenti del Festival del film vogliono veramente difendere la libertà di espressione lo dimostrino l’anno prossimo proiettando il film Submission nel decimo anniversario dell’assassinio del regista Theo van Gogh!

Giorgio Ghiringhelli, fondatore de Il Guastafeste promotore dell’iniziativa antiburqa