Siamo tutti contenti del progresso della medicina. Poter guarire malattie, alleviare dolori, che ancora pochi anni fa erano calamità senza alcun spiraglio di luce o sollievo. Ma come ogni medaglia, anche questa ha il suo rovescio. Ogni progresso, paradossalmente, può progredire oltre il limite dell’utile. Pensiamo alla nostra alimentazione. I nostri nonni conoscevano la fame. Noi l’obesità e le malattie che ne conseguono, fisici e psichici. Sofferenza. E costi, quindi altre sofferenze.

Con il progresso nelle cure mediche è arrivato l’accanimento terapeutico. L’ambizione indiscussa, che se per una malattia esiste una cura, la si deve applicare. Nella sua forma più scientificamente e tecnicamente più perfezionata. Ma è quello che vogliamo? In tutte le situazioni?

Mia madre aveva passato i 90 anni, aveva qualche fragilità, ma una buona qualità di vita. Stava nel nostro villaggio, a pochi passi dal piccolo ospedale dove personale e pazienti si conoscono. Ogni tanto aveva un acciacco e medici, infermieri e badanti proponevano di mandarla all’ospedale distrettuale, dove ci sarebbe stata la “medicina di punta”. Se c’era uno di noi fratelli ad accompagnarla era una simpatica gita, lei commentava, chiacchierava. Si faceva merenda in una pasticceria di città. Tutti contenti. Ma se non c’era nessuno di noi la mettevano in un’ambulanza, da sola. Con persone mai viste, e magari passare la notte in un luogo estraneo. Tornava che era impaurita e insicura per giorni. Finalmente mia madre ha firmato un “testamento biologico” dove certificava il suo rifiuto a ogni terapia che l’avrebbe obbligata a lasciare il villaggio. Era perfettamente consapevole che il nostro piccolo ospedale le dava quello che a lei serviva. Non aveva bisogno di medicina di punta. Ma di sicurezza, affetto, dialogo (a volte silenzioso). E infine di qualcuno che le tenesse la mano, le spostasse il cuscino per farla stare comoda.

Certo, anche lei era contenta del progresso. Un cerotto antidolorifico che cent’anni fa non esisteva. Fibre tessili innovative che permettono di farsi aiutare nei movimenti e nell’igiene, massimizzando l’autonomia e l’indipendenza della persona, minimizzando i momenti nei quali ci si sente incapaci. Queste sono cose importanti, anche per chi apparentemente non è cosciente. Rispettare la dignità, di tutte le persone coinvolte nella cura. Il paziente, i professionisti, i parenti e amici e prossimi.

Questo lo può offrire un ospedale piccolo, familiare. Come Acquarossa e Faido. Un vantaggio che mai nessuna avanguardia scientifica e tecnica potrà dare. La vicinanza umana. Paradossalmente, la decentralizzazione delle cure ospedaliere è anche economicamente pagante. Questo sia per via dell’invecchiamento della popolazione e quindi il numero di pazienti, sia perché “crea economia” in periferia. Perciò invito a firmare l’iniziativa per le cure mediche di prossimità (chiamata anche “per gli ospedali di valle”).

(In questo momento ci sono ben tre iniziative che riguardano la sanità, quella federale per le cure infermieristiche, e due cantonali, questa per gli ospedali di periferia e l’altra per la qualità delle cure ospedaliere. Tre proposte ragionevoli e sagge. Se volete dare una mano a raccogliere firme, volentieri indico dove trovare le informazioni e i contatti).

Melitta Jalkanen, Ruvigliana