Uno dei temi sui quali regnano accesi confronti in politica, nella società e in economia è la moralità e la funzione sociale del profitto. Perché fare profitto è cosa buona e giusta? La risposta la dà per esempio Papa Giovanni Paolo II in Centesimus Annus: quando un’azienda ottiene un profitto, questo significa che i fattori produttivi sono stati impiegati nel migliore dei modi e corrispondono ai bisogni umani più urgenti da soddisfare. Detto in altre parole, l’imprenditore che consegue profitto sa che sta facendo il bene altrui, perché altrimenti i clienti non avrebbero pagato tanto per quel bene o servizio. Questo naturalmente a patto che i prezzi ed i contratti siano stati stabiliti in piena libertà con i consumatori, i fornitori, i salariati, i finanziatori ecc. Al contrario, un’impresa statale o parastatale, finanziata per esempio con una tassa obbligatoria, non aumenta necessariamente il benessere nella società anche se i suoi costi fossero minori dei ricavi dalla tassa. Il che non significa che Stato o Parastato non facciano bene il proprio lavoro e che i dipendenti non si impegnino: il problema è che non vi è nessun metro di giudizio per capire se stia facendo qualcosa di davvero utile e se stia offrendo la giusta quantità e qualità di beni e servizi, dato che i “clienti” sono obbligati a pagare a prescindere.

Non si scordi inoltre che l’impresa che consegue profitto subisce il prelievo fiscale e contribuisce a finanziare lo Stato, mentre l’impresa statale o parastatale consuma risorse confiscate a terzi. La giustizia e legittimità del profitto, ossia l’aspetto morale anziché prettamente utilitaristico, risiede proprio nel suo conseguimento in assenza di coercizione. Pertanto in pieno rispetto dei diritti della grande miriade di persone chiamate a collaborare nell’impresa, così come nel rispetto della libertà che i clienti hanno di accettare o meno l’offerta fatta dall’imprenditore. Sulla sola base di accordi volontari, l’imprenditore tesse nella società una nuova rete di relazioni (quella che chiamiamo impresa) volta a far stare meglio chi vi partecipa, senza impoverire chi non vi si interessa. Queste precisazioni permettono di identificare e condannare in modo chiaro quei casi di imprese che invece si arricchiscono a danno di terzi, per esempio non indennizzandoli per determinati danni recati, oppure pretendendo finanziamenti fiscali. Un discorso ben separato, che non inficia quanto appena detto sul conseguimento del profitto come azione buona e giusta, riguarda invece l’uso che si fa della ricchezza così prodotta. Nell’ottica cristiana per esempio, l’esortazione è chiaramente volta a utilizzare in aiuto di terzi bisognosi i mezzi ricavati ed accumulati. Ma cum grano salis: va cercato un equilibrio tra la capitalizzazione del profitto, per permettere all’impresa di crescere ancor più e facendo così ulteriore bene, e la sua immediata distribuzione.

L’uso benefico del profitto ci porta infine alla moda di questi ultimi decenni del settore cosiddetto non profit. Per quanto questo sia sicuramente preferibile al finanziamento tramite la leva fiscale, che senza consenso sottrae risorse ai contribuenti per destinarle a chi pare, il non profit va considerato con molta cautela perché potrebbe celare enormi sprechi gestionali. Un conto è l’assenza di profitto intesa come assenza di capitalizzazione di mezzi, per esempio nel caso di una fondazione benefica che con la massima efficienza organizzativa devolve tutti i suoi proventi allo scopo per cui li ha ottenuti. Altro conto è l’assenza di profitto perché i costi e gli sprechi si sono gonfiati a dismisura con logiche simili a quelle burocratiche. In conclusione, i valori cardini restano anche in questo caso il pieno rispetto della libertà e volontarietà delle controparti e l’appello ad un comportamento individuale responsabile.

Paolo Pamini
ETHZ ed Istituto Liberale