“O signora! O ‘n do’ la va con quel carrettino? O ‘un lo vede ‘he si spara!”
I partigiani stavano appostati dietro gli alberi della piazza, a ridosso dell’entrata di un rifugio antiaereo interrato, e da lì prendevano di mira i due cecchini fascisti al riparo di un abbaino sul tetto della casa dei Treves, amici di famiglia, proprio davanti al liceo “Dante” .

Dovevano essere passati un paio di giorni da quando le prime truppe alleate avevano attraversato l’Arno, l’11 agosto – si vede in un episodio del film “Paisà” – e i fascisti rimasti a Firenze si ritiravano alla spicciolata verso il Nord sparando a chi potevano. A Milano, il 10 agosto i fascisti della Legione “Ettore Muti” avevano eseguito l’ordine del capitano Theodor Saeveck delle SS e trucidato per rappresaglia, dopo un attentato “gappista”, quindici antifascisti a piazzale Loreto, vicino al distributore di benzina a cui, per controrappresaglia, otto mesi dopo furono appesi a testa in giù i corpi di Benito Mussolini, di Claretta Petacci e dei loro compagni di sventura.

La donna e la ragazza che erano finite dove non dovevano, in mezzo a piazza della vittoria nel fuoco incrociato, erano la mia mamma e la giovane Rita, cugina di mio padre. Il passeggino – di seconda mano ma robusto, di colore giallino – serviva a portare una damigiana, che era stata imbracata dal babbo in un’intelaiatura perché non si rovesciasse per i sobbalzi lungo un paio di kilometri di strada pieni di buche.

Nel passeggino, stretto fra l’imbracatura e la damigiana, c’ero io che avevo due anni e mezzo e non potevano lasciarmi a casa da solo mentre andavano a prendere l’acqua, ché ci volevano un paio d’ore. Una corsa affannosa sotto il sole del pomeriggio d’agosto, la mamma davanti a spingere il passeggino e dietro la Rita, col suo nasino in su, i capelli ondulati, il vestito di cotonina sui piccoli seni , e i sandali “con gli occhi” che indossa anche in una foto con me in braccio, nitida in bianco e nero, scattata in quei mesi sul terrazzo di casa nostra. Grazie al buonsenso dei partigiani comunisti che smisero di sparare per farci passare, e a quello dei cecchini fascisti che non ci tirarono addosso dall’alto, la mia comparsa nella politica italiana non finì sul nascere nel sangue Da sotto la damigiana potevo vedere le cime dei pini contro il cielo azzurro.

Ripreso fiato al riparo di un portone, la mamma e Rita proseguirono il loro viaggio verso l’unica acqua che c’era nell’intero quartiere, una fontana dentro la galleria ferroviaria della linea Milano-Roma, vicino a via Vittorio Emanuele.

A un ultimo piano di quella stessa via abitava mia nonna Marina, che non aveva voluto abbandonare i suoi gatti e i suoi piccioni nel solaio neanche sotto i bombardamenti alleati che essendo notoriamente imprecisi, anziché i binari centravano le case intorno. Credo che una parte dell’acqua della damigiana fosse destinata alla nonna. Forse dopo averla travasata in fiaschi per poterla portare fino all’ultimo piano, Da li’ si vedeva il giardino dell’Orticoltura, con la grande serra in stile “Liberty” i cui vetri erano andati tutti in frantumi durante uno di quei bombardamenti

La zona dove abitavamo noi invece, più’ verso il centro della città, non era stata bombardata. In compenso, una granata tirata dai tedeschi in ritirata, aveva d’improvviso, un pomeriggio di qualche giorno prima, riempito di enormi detriti il nostro terrazzo (quello che si vede nella foto in bianco e nero con me e Rita) un attimo dopo che zia Maria, sorella di Rita, mi aveva chiamato in cucina per guardare insieme le vignette colorate con le didascalie in rima sul “Corriere dei piccoli”:
“Vieni dentro Umbertino, vieni a guardare le figure…”

Era stata una granata come quella a uccidere poco prima il capo partigiano “Potente”, di là d’Arno, un quartiere che da noi, di qua d’Arno, in quei giorni doveva sembrare su un altro pianeta. Certo, “Potente” con al collo il fazzoletto rosso dei “garibaldini”, era molto più importante di me. Eppure, così piccolo, ero già un sopravvissuto, mentre lui era morto. Già due volte l’avevo scampata, senza contare i mitragliamenti quando eravamo sfollati in campagna da un contadino chiamato “Ciancana” (“via a colsa dacciancana!” dicono esclamassi io tutto contento – dunque parlavo! – cercando di raccontare l’ultima precipitosa fuga a casa del contadino per mano alla mamma – al babbo venuto la sera a trovarci dalla città dove lavorava all’Ispettorato).

Strano che mi ricordi così bene della granata tedesca, e del fragore del muro colpito che crollava proprio sotto il nostro terrazzo nel momento stesso in cui entravo in casa, mentre dell’episodio del passeggino con la damigiana ricordo solo le cime dei pini marittimi di piazza vittoria, intravisti dal basso, che pero’ mi diventarono cosi’ familiari negli anni successivi (la mia scuola media era li’ davanti, in piazza giocavamo a calcio e sulle panchine ascoltavamo in silenzio le ragazzine fare i loro discorso da grandi) che non sono del tutto sicuro di quell’immagine stampata nella mia retina, contro il cielo limpido dell’estate del ‘44. Probabilmente avevo dormito durante tutto il tragitto verso la ferrovia….

La fila di donne in attesa per l’acqua lungo i binari bollenti vicino al tunnel (gli uomini che si nascondevano per timore di essere deportati in Germania) li ricordo soprattutto perché la racconteranno poi tante volte in casa. Come la storia dei tappi nelle orecchie, nel rifugio in cantina buio e affollato, quando i tedeschi in ritirata fecero saltare i ponti sull’Arno e sul torrente Mugnone. Se ne parlava soprattutto quando era presente Rita, con i suoi bei capelli neri, la voce squillante e il sorriso contagioso. O così mi pareva.

Fu in questa stessa piazza che quasi due anni dopo, a inizio giugno 1946, piantai una bizza con la nostra domestica Pasquina, proprio davanti al liceo Dante, sotto il tricolore con lo stemma sabaudo. Non ero un bambino bizzoso, ma mi ero messo in testa che volevo votare anch’io al referendum istituzionale per la scelta fra monarchia o repubblica. Non per precoce coscienza civile – avevo neanche quattro anni – ma perché in quei giorni tutti parlavano di nient’altro che di votare. Il babbo, la mamma, Maria, Rita.

E io? mi chiedevo, perché non posso votare anch’io? Voglio votare!
La Pasquina on mi aveva neanche ascoltato. Ma ora che mi trovavo davanti all’imponente scalinata del “Dante” con quella grande bandiera, almeno la Pasquina doveva starmi a sentire. Mi misi a strillare e mi rotolai sul marciapiedi, cosa che non avevo mai fatto. E quando la domestica, che era della provincia di Arezzo, disse “guarda Umbertino che me ne vado e poi lo dico al babbo”, lasciai che si allontanasse, mi alzai di scatto e scappai.

Quella bizza fini’ male per me. Non solo non mi fecero scegliere fra monarchia e repubblica, ma dopo aver corso un centinaio di metri non riuscii più’a trovare la Pasquina, e neanche la strada di casa..

Alla fine fu lei a trovarmi mentre col cuore in gola cercavo di spiegare la mia situazione a un passante, omettendo la storia del votare e la bizza che avevo fatto (“Per favore signore, scusi, ha mica visto una signorina vestita così e così?..).

La sera a ora di cena, in piedi dietro la mia sedia, accanto alla Pasquina, dovetti sorbirmi una ramanzina del babbo che ancora ricordo, dopo settant’anni…

Umberto Giovine