È forse il segno della collera di Dio? Egli ci giudicherà con misericordia e fermezza.
Quantunque volte, graziosissime donne, meco pensando riguardo quanto voi naturalmente tutte pietose siate, tante conosco che la presente opera al vostro giudicio avrá grave e noioso principio, sí come è la dolorosa ricordazione della pestifera mortalitá trapassata, universalmente a ciascuno che quella vide o altramenti conobbe dannosa e lagrimevole molto, la quale essa porta nella sua fronte.”
Sarà stato anche quello un fenomeno antropologico come questo che stiamo vivendo in questi giorni? È, ovviamente, l’inizio del Decameron di Giovanni Boccaccio, mentre ciò che sto osservando è il mio Paese, la civilissima Milano, posseduta da una isteria collettiva.
Sono prossimo ai sessanta: nel 1976, quando di anni ne avevo quattordici, la Televisione Ticinese, ai tempi captabile in tutto il Paese, trasmise una serie televisiva inglese, Survivors, I Sopravvissuti.
La serie era in bianco e nero ed io svolgevo con impegno il primo lavoro retribuito, per mio padre, ero il suo telecomando. “Cambia canale”, “smorza”, “più forte”, così, io mi alzavo dal divano ed andavo ad eseguire il mio compito.
Survivors mi piacque subito, sarà stato il ritmo (l’ho rivista decenni dopo, era lentissima), sarà perché nell’aria c’era già il punk e le nostre antenne bramavano un mondo nuovo da ricostruire, sarà perché Abby, la protagonista, l’attrice Carolyn Seymour, corrispondeva al mio immaginario femminile, donna forte, motivata, disponibile a rischiare.
“La Strada” di Cormac McCarthy sarebbe arrivato molto tempo dopo ed in maniera ancor più dura, più punk; diciamo però che il mio confronto con la fine collettiva, l’ho avuto abbastanza presto.
Di questa storia del Coronavirus, non voglio argomentare in termini scientifici, non sono uno scienziato, come potrei farlo; ho letto quest’articolo di Paolo Giordano, che mi ha affascinato per la sua lucidità impeccabile e logica finissima.
Vorrei proporvi questa visione, diciamo“teologico/monastica”.
Il nostro mondo, così come l’umanità intera, in questa esperienza terrena, non è immortale; la caratteristica comune che lega me ai miei amati figliocci, ai bimbi più piccoli che in questo fecondo gennaio sono arrivati, è che condividiamo il medesimo destino, che siamo mortali, che la nostra esperienza terrena è a termine, per quanto ci sembri “figo” far finta diversamente.
Nasciamo per morire, veniamo al mondo per andarcene.
La nostra specie, gli umani, di qualcosa dovrà pur perire e lo scenario della pandemia è da sempre, una soluzione che è apparsa logica. Il fatto che sia logica, non vuol dire che non ci spaventi! E, a far tesoro delle reazioni che oggi registriamo, ci spaventa tanto.
L’altro giorno, cercavo di fare la spesa per la mamma del piccolo Bogdan e del suo mediatore culturale, al supermercato Esselunga di San Donato Milanese. La scena era cinematografica, scaffali vuoti, patrizie matrone lombarde che comandavano con cipiglio a schiave ucraine o filippine, cosa e quanto caricare su carrelli.
Carrelli, da riempire d’ogni cosa per cercare di esorcizzare lo spavento. Ho visto con i miei occhi una signora acquistare cento tre confezioni d’acqua Uliveto e due miei coetanei venire alle mani per un pacco da dodici Nutella biscuits.
I provvedimenti, vi ho detto prima, non li discuto; se debbano essere chiuse le scuole, i cinema, sospese le manifestazioni, non sta certo a me il dirlo, di sicuro mi appare strano che si chiudano i musei e si lascino aperti i centri commerciali, aveva ragione il Poeta, il vecchio Ezra, l’economia necessita di una propria teologia per affermarsi, ed evidentemente i centri commerciali hanno oggi, la medesima dignità dei sancta sanctorum, sono intoccabili.
Ultimamente ho visto attorno a me tanto dolore e frequentato troppi umani di terza classe, perché il disagio dei ricchi che si compiacciono al gioco di società dell’epidemia, possa impressionarmi.
Certamente, i Vescovi cattolici che hanno interrotto ogni celebrazione, mi colpiscono.
“Il patriarcato di Venezia suggerisce di evitare lo scambio della Pace.”
“Alla luce della situazione che si è creata con la diffusione del Coronavirus in alcune zone del proprio territorio, la diocesi di Padova è in contatto con le competenti Autorità pubbliche al fine di applicare responsabilmente le disposizioni di protezione emanate per le comunità interessate e quelle di preventiva cautela riguardanti l’intero territorio”, spiega una nota diffusa dalla diocesi di Padova. “Qualora ci fossero delle Ordinanze comunali che adottino provvedimenti ufficiali, i parroci e i responsabili delle diverse realtà parrocchiali vi si atterranno rigorosamente, anche se si trattasse – ove richiesto – di tenere chiuse le chiese, sospendendo le celebrazioni”
Chiese vuote, mascherine ed amuchina, esaurite.
Se fosse per noi, meriteremmo di scomparire, senza pietà o dubbi. Abbiamo fallito come civiltà prima e come Nazione dopo. Abbiamo smarrito il senso etico dello Stato e la responsabilità d’appartenere ad una comunità di destino.
C’è chi ha pagato una fortuna per tornare dalla Cina, triangolando il proprio viaggio, per dribblare la quarantena, ci sono HR unit di aziende “illuminate” che si sono di fatto sostituite al Ministero della Salute, giocando a fare il Digital Big Brother, nell’amministrare quarantene e smart working, una classe politica vomitevole che trasforma un problema nazionale nel terreno dello scontro retorico, dialettico.
Ma perché le Chiese chiuse?
Quelle che furono aperte nei secoli che con sfacciataggine e arroganza continuiamo a chiamare bui e che non produssero mai le brutture che stiamo servendo noi alla posterità, durante le carestie, le epidemie, la peste, restarono aperte, furono rifugio per i timorati di Dio.
Il primato della scienza senza Dio ha trionfato. Il relativismo dell’opportunità ha sconfitto la necessità del Sacro, del Mistero.
Qualcuno vicino al mio cuore, mi ha chiesto se questo virus, non fosse il segno della collera di Dio verso chi ha smarrito la strada. Rispondo da monaco e da ortodosso: Dio ci giudicherà con misericordia e fermezza sulla nostra esistenza e su come abbiamo speso i talenti che Egli ci ha donato; ma il Dio che ho conosciuto nell’Ortodossia, al monastero di Dečani, per le strade di Gerusalemme, non invierà piaghe, dopo aver inviato il Proprio Figlio per espiare i nostri peccati e additare la via.
Quel Dio non chiuderà mai la porta del Suo cuore, figurarsi quella di una Sua chiesa, a chi in Lui vorrà riposare, a chi in Lui confida, a chi in Lui si affida.
Tra qualche giorno inizierà la Santa Quaresima ortodossa, il mercoledì sarà necessario per i credenti comunicarsi, come abbiamo sempre fatto, del Corpo e del Sangue di nostro Signore, da un calice Santo, con un unico cucchiaio, лжица, λαβίς, come prevede la Divina Liturgia.
Qualcuno si chiederà se sarà sanitariamente corretto il farlo? Se questo non sia un comportamento a rischio? Nel relativismo, piaga mortale del nostro tempo, si possono trovare perfettamente uniti e sincronici, cattolici e ortodossi.
Sappiate che in questi giorni di meditazione, l’ultimo monaco di un antico monastero pregherà per chi coltiva i dubbi seminati dal maligno, perché la coerenza nella fede sconfigga la comodità e l’abitudine, perché rimangano spalancate le porte delle Chiese, perché ci si renda conto che la nostra eternità la si costruisce qui, in questa terra desolata, fecondata dalle lacrime di madri.
A tutti quegli ortodossi che “prudenzialmente” non comunicheranno i loro bambini o sé stessi, offrirò comunque la mia preghiera. Pregherò per la loro conversione, che diventino ortodossi nell’animo e non nella forma o per diritto ancestrale dal luogo di provenienza.
Pregherò anche per la nostra Italia, per questa comunità di destino che ha smarrito se stessa, giocando ad essere cinica, senza sapere che essendo cinici ci si ritrova ad esseri bari.
Che Dio vi benedica,
un monaco del monastero di Dečani
(fonte: Ortodossia Torino)