Richard Mosse al Mast di Bologna

di Cristina T. Chiochia

La sintesi del conflitto climatico oltre il cambiamento climatico stesso. Ne è un esempio la vicina Italia che in questo ferragosto oramai alle porte, brucia. Proprio in questi giorni gli incendi dolosi e non, hanno bruciato in Italia quasi 110.000 ettari che, volendoli paragonare ad un equivalente per rendersi conto della tragedia che sta affrontando il paese confinante con la Svizzera, riportano i giornali che è quasi l’equivalente di 150.000 campi di calcio. Piromani. E disamore per la terra. Senza sentirsi veramente “cittadini” , con diritti e doveri, prima che  di una citta o di una nazione , anche di un habitat naturale, da preservare. Non distruggere.

“Lost fun” Congo

A ricordare i conflitti e i cambiamenti climatici durante questa settimana di ferragosto ci aiuta una mostra nella vicina Italia che si sta svolgendo nella città di Bologna dove viene mostrato il lavoro di un fotografo irlandese ,classe 1980, presente con una video installazione già nel 2013 alla Biennale di Venezia; un lavoro, il suo negli anni, che guarda il conflitto climatico visto con gli occhi di una macchina fotografica che va oltre la prospettiva dell’immagine che propone.  Richard Mosse insomma, diventa un ponte, in questa mostra dal titolo evocatrivo Displaced, scegliendo un luogo, il MAST a Bologna (www.mast.org), sempre attenta come istituzione internazionale alla cultura e filantropia basata sulla tecnologia, l’arte e l’innovazione sin dal 2013, anno della sua fondazione, al fine di creare progetti su identita’ e crreatività umana.

La mostra, aperta fino al 19 settembre 2021 cerca anche in questo caso di cucire insieme gli elementi di migrazione, conflitto, cambiamento climatico attraverso l’innovazione tecnologica, per non dimenticare che, in fondo si è tutti cittadini, anzi, concittadini di questo mondo, ruolo di cui rendersi forse conto un pò più spesso perchè no, proprio grazie alla tecnologia. Non a caso si tratta della prima antologica dedicata al lavoro del fotografo, su questi temi. Una mostra che fa da specchio, in questi giorni torridi di ferragosto, a temi importanti sul cambiamento climatico stesso e l’intervento innaturale dell’uomo sul paesaggio.

Una mostra di forte impatto visivo ed emozionale, volta a far riflettere attraverso non solo le fotografie ma anche i video che, come lunghi piani sequenza, spaziano dal ritmo della musica di sottofondo alla logica dei primi piani e dei particolari fotografici, non attraverso il bianco e nero, ma l’azzurro fotografico o ai fondali marini di blu e di rosa delle piante, fino agli spostamenti delle armi e dei guerriglieri. Sia le tecniche di ripresa che quelle fotografiche sono in questo molto particolari ed offrono il punto di vista di chi guarda e riceve l’immagine fotografica in un continuo scambio, tra luce della natura, azzurra come il mare ed incontaminata come il cielo, e la presenza umana, vissuta come bianco e nero, come ombra o come macchia nei colori incontaminati della natura.

“Come out”, Congo, 1966

In questo progetto, la Fondazione MAST presenta Displaced, ad ingresso gratuito, curata da Urs Stahel. Dirompenti poi le 77 fotografie che sono, come recita il comunicato stampa: ” di grande formato inclusi i lavori più recenti della serie Tristes Tropiques (2020), realizzati nell’Amazzonia brasiliana. Oltre a queste straordinarie immagini, la mostra propone anche due monumentali videoinstallazioni immersive, The Enclave (2013) e Incoming (2017), un grande video wall a 16 canali Grid (Moria) (2017) e il video Quick (2010)”. L’immagine e lo scatto oltre il cambiamento stesso della potenza della natura che si ribella alla mano dell’uomo. Battaglie, conflitti ed eventi iconici. In un mondo dove la creatura umana, purtroppo è spesso nascita e catastrofe delle tragedie naturali e che, inevitabilmente, diventano umane. Come dice il curatore stesso della mostra: 

 “Richard Mosse crede fermamente nella potenza intrinseca dell’immagine, ma di regola rinuncia a scattare le classiche immagini iconiche legate a un evento. Preferisce piuttosto rendere conto delle circostanze, del contesto, mettere ciò che precede e ciò che segue al centro della sua riflessione. Le sue fotografie non mostrano il conflitto, la battaglia, l’attraversamento del confine, in altri termini il momento culminante, ma il mondo che segue la nascita e la catastrofe. L’artista vuole sovvertire le convenzionali narrazioni mediatiche attraverso nuove tecnologie, spesso di derivazione militare, proprio per scardinare i criteri rappresentativi della fotografia di guerra”.

Campo di Suda, isola di Chio, Grecia

Per concludere, interessante le tecniche utilizzate: per esempio nella serie ambientata in Congo la tecnica con  la Kodak Aerochrome,che viene definita “una pellicola da ricognizione militare sensibile ai raggi infrarossi, messa a punto per localizzare i soggetti mimetizzati. La pellicola registra la clorofilla presente nella vegetazione e “rende visibile l’invisibile”, con il risultato che la lussureggiante foresta pluviale congolese viene trasfigurata in uno splendido paesaggio surreale dai toni del rosa e del rosso. Sono fotografati paesaggi maestosi, scene con ribelli, civili e militari, le capanne in cui la popolazione, sempre in fuga, trova momentaneo riparo da un perenne conflitto combattuto con machete e fucili”.

 Mentre nella serie Heat Maps  viene utilizzata una “tecnica militare che consente di “vedere” le figure umane fino a una distanza di trenta chilometri, di giorno come di notte. Le immagini sono apparentemente nitide, precise e ricche di contrasto. A un esame più attento, invece, non si riescono a distinguere i dettagli ma solo astrazioni: persone e oggetti sono riconoscibili solo come tipologie, nei loro movimenti o nei contorni, ma non nella loro individualità e unicità”.

Un viaggio mentale e fisico nei colori e nella bellezza della natura come bene collettivo, attraverso anche gli occhi di uomini pronti a distruggerla in nome di un interesse personale o di pochi. Da visitare.