“I Fazzoletti Rossi – i contadini della Vandea contro la Rivoluzione francese” è un romanzo storico scritto nel 1984 dal critico d’arte Michel Ragon (1924 – 2020) col titolo originale di “Le mouchoirs rouges de Cholet”, che racconta l’altra faccia della Rivoluzione Francese, ovvero le guerre civili combattute tra i Repubblicani giacobini prima e napoleonici poi e gli abitanti della Vandea, una regione a Nord Ovest della Francia, attaccata alla Loira, di poco sotto alla Bretagna e alla Normandia.  

Ambientato nell’arco di tempo delle quattro Guerre di Vandea (1793 – 1815), “I Fazzoletti Rossi” è scritto con uno stile sobrio, realista, crudo, volto a dare uno spaccato di vivido realismo delle miserie dei contadini vandeani.

Diciamo che, nell’epoca odierna, in cui tutto scrivono di tutto, un lettore esperto riesce a riconoscere quando lo scrittore veramente sa. E l’autore de “I Fazzoletti Rossi” dimostra uno straordinario sapere delle usanze contadine, delle rudimentali tecniche di coltivazione della terra, delle colture (es. assistiamo all’”ingresso” della patata, chiamata dai cattolici vandeani “frutto del diavolo” perché importata dai giacobini), ma anche delle superstizioni, delle a dir poco sbalorditive pratiche considerate mediche (es. a un neonato viene fatto ingoiare il verme che ha appena espulso, affinché “dia la caccia agli altri vermi”) delle credenze e delle leggende: è attraverso questa carrellata di nozioni mai, tuttavia, pedante, che si delinea davanti agli occhi del lettore un paesaggio fatto di arature, semine, feste contadine e veglie attorno al fuoco.

“I Fazzoletti Rossi” è un romanzo che fa riflettere, grazie allo spaccato di vita dei “nostri antenati” che possiamo comparare col nostro. I protagonisti mangiano pochissima carne, raramente della selvaggina, aiutano le vacche a guidare il giogo, hanno civette domestiche: il rapporto uomo-animale e uomo-natura, così perduto nella frenesia odierna è perciò, in questo romanzo, rievocato.

Assistiamo poi agli orrori della guerra attraverso gli occhi dei protagonisti, che dalla guerra fuggono oppure nella guerra s’addentrano, per capire solo alla fine l’insensatezza delle carneficine.

Infine, assistiamo all’implicita nascita dei cognomi, poiché i contadini hanno quasi tutti dei soprannomi, mai dei nomi veri e propri: facile dunque immaginare come da essi siano derivati i moderni cognomi, così in Francia come in altre parti d’Europa.

Henri de la Rochejaquelein

Eccoci dunque alla trama. Il romanzo inizia con un uomo, di età indefinita, che esce dalla quercia nella quale si era rintano per sfuggire agli orrori della Rivoluzione Francese, e viene per questo chiamato Dochȃgne, “Della Quercia”. Di villaggio in villaggio, assistiamo, attraverso gli occhi dell’uomo, a uno spettacolo desolante ed orrifico, nel quale donne e uomini giacciono morti in fila, con gli orifizi sventrati delle cartucce di cui sono stati imbottiti. Dochȃgne incontra poi un gruppo di fuggiaschi, radunati attorno ad un celtico Dolmen, dove un curato (che verrà da essi soprannominato, non a caso, “Noé”, li guida (anche spiritualmente). Ritornato in comunità, Dochȃgne inizia a fare parte di quel gruppo di superstiti che, lentamente, prende, sotto la guida del Curato Noè, a rifondare un villaggio. La vita in Vandea, piano piano, ricomincia timida a rifluire. Incontriamo così il fabbro che “Canta in inverno”, soprannominato quindi Chante-en-hivrer e, più tardi, Jaques il-tessitore.

La morte ha distrutto lo stato sociale, e la vita, per risorgere, deve fare a meno di esso: così, su consiglio del “Curato Noé”, vengono formate famiglie allargate, e la santa guida soprassiede sulla promiscuità e sulla poligamia: il fine giustifica i mezzi, le nascite ripopolano laddove la morte aveva falciato.

Lo stesso Dochȃgne sposa una fanciulla, Elehussard, rimasta incinta dopo uno stupro da un ussaro (e proprio un ussaro di Delacroix campeggia sulla copertina dell’edizione italiana), la quale muore di parto, dando alla luce un bambino che, crescendo, si rivelerà in tutto simile al padre, e viene perciò soprannominato Testa-di-lupo. Il “figlio dello stupro” viene però adottato da Dochȃgne, senza però essere mai integrato nella società contadina di Vandea. Raggiunti i quattordici anni, Testa-di-lupo si dà al vagabondaggio, per ritornare solo sei anni dopo, in un alone di ferinità misteriosa. Dochȃgne, nel frattempo, si risposa con la quindicenne Louise. Nel romanzo, accuratamente storico, assistiamo all’assenza dello status dell’adolescenza: così come si addiceva alle epoche passate, in “I Fazzoletti Rossi” o si è adulti o si è bambini. Fanciulli e fanciulle di dodici o di quindici anni, sono considerati adulti a tutti gli effetti.

Louise partorisce a Dochȃgne numerosi figli, uno dei quali viene chiamato “Monsieur Henri” in memoria di Henri de la Rochejaquelein, aristocratico della Vandea combattente contro la Rivoluzione e morto a vent’anni in un’imboscata. I personaggi storici emergono così in filigrana attraverso la reverenza (o l’odio come nel caso “dell’orco Turreau” de Garambouville, autore delle “colonne infernali” del 1794, rappresaglie che commisero una carneficina contro i dissidenti del Terrore giacobino) dei protagonisti contadini. Ogni evento storico, in “Fazzoletti rossi” è narrato attraverso gli occhi dei contadini. In questo modo assistiamo all’esplodere delle tre successive guerre di Vandea, nell’ultima della quale Chante-en-hivrer porta a combattere il figlio di Dochȃgne, “Monsieur Henri”, il quale, a soli quattordici anni, muore travolto da un cavallo di un ussaro.

La morte di “Monsieur Henri”, è l’emblema della fine del sogno di rivalsa vandeano. Morendo “Monsieur Henri”, prefigurazione di Henri de la Rochejaquelein (morto in battaglia quattordici anni addietro), è come se il “vero” Henri, cioè Henri de la Rochejaquelein morisse un’altra volta e con lui scompaia la speranza della resistenza contro la Repubblica. Nella quarta guerra di Vandea, perde la vita il fratello di Henri de la Rochejaquelein, ovvero Louis de la Rochejaquelein, suo erede militare e spirituale: “colpito da parecchie fucilate a bruciapeolo, il marchese Lpuis, emissario di Luigi XVIII, generalissimo della quarta guerra di Vandea, fu rapidamente soffocato dal sangue che sprizzava da, suo petto sforacchiato. Derisione supplementare, quelli che avevano appena ucciso colui che voleva morire da erore, altro non erano che semplici gendarmi [….]”

Contemporaneamente all’atroce battaglia, Napoleone (nel romanzo chiamato l’”Anticristo”) sta vivendo i suoi Cento giorni e, proprio nei giorni in cui i vandeani vengono massacrati nella quarta guerra di Vandea, Napoleone perde a Waterloo. Napoleone, commenta lo scrittore, non odia i Vandeani, ma i Vandeani non lo sanno e, in quanto “figlio della Rivoluzione”, lo hanno in odio; essi amano i Borboni, dai quali, però, vengono alla fine abbandonati. Così, nel romanzo, commenta Napoleone in persona: “Il mondo è mal fatto. I vandeani ed io eravamo fatti per intenderci, e si sono invece battuti di nuovo per Luigi XVIII che li disprezza”. E commenta Rougon: “ciò che Chante-en-hivrer non sapeva, che non avrebbe mai saputo…”

 Ma non è solo cruda storia quella che adorna l’ossatura principale del romanzo, ma anche epifanie, come l’apparizione dell’amazzone Lucie de la Rochejaquelein (sorella dei due vandeani) al giovane “Monsieur Henri”, quando questi è ancora in vita, vista dal ragazzo come “mezzo fata Melusina mezzo Vergie Maria”.

La morte di “Monsieur Henri”, è, last but not least, l’inizio dell’odio irrefrenabile tra Dochȃgne e Chante-en-hivrer: il primo accusa il secondo di avergli ucciso il figlio. Trai due amici di un tempo, compagni di sventura e di rinascita, sorge così un’inimicizia che porta il figlio adottivo di Dochȃgne, Testa-di-lupo a vendicarsi contro Chante-en-hivrer, aizzando contro la sua fucina una muta di lupi che il ragazzo ha imparato a domare durante i suoi vagabondaggi. Nell’assalto rimane sgozzato Pierre, il figlioletto di Chante-en-hivrer, il quale “paga il fio” d’aver portato alla morte il figlio dell’amico di un tempo, Dochȃgne, con la morte del proprio figlio. Nessuno conosce la mano di Testa-di-lupo dietro il terribile assalto, tranne Luison, la figlia ventenne di Chante-en-hivrer.

Michel Ragon

Tra Luison e Testa-di-lupo nasce quindi un’ostilità sottesa, che non si trasforma, però, in faida. Non è infatti Testa-di-lupo ad uccidere Chante-en-hivrer, ormai impazzito, ma tutta la comunità, che col pretesto di vedere nell’antico fabbro un indemoniato, lo uccide con una martellata in testa. l’omicidio dà così modo al lettore di penetrare in una realtà cruda e priva di ideali, severa ed ipocrita.

Se, infatti, i giovani scapoli hanno come tacito accordo quello di darsi alla promiscuità pur senza concedersi all’atto carnale, Luison (unica figlia tra quelli di Chante-en-hivrer a non aver abbandonato il villaggio dopo l’omicidio del padre), non può essere libera di avere rapporti con lo zoccolaio quarantenne del villaggio. La coppia è presa di mira dai coetanei di Luison, la civetta domestica dello zoccolaio viene inchiodata al muro, sinché i due amanti sono costretti a dividersi e a fuggire per schivare il linciaggio. Mentre lo zoccolaio parte per Nantes, aiutato da Testa-di-lupo, Luison scompare nella foresta. Sarà ritrovata “smagrita e coi piedi sanguinanti” da Testa-di-lupo, il quale, dimenticando l’odio (ma non l’attrazione) le offre un tozzo di pane. Abbandoniamo per sempre gli unici due personaggi non integrati nella comunità di contadini della Vandea, destinati a darsi alla macchia e, forse, a gettarsi alle spalle l’antico rancore (dovuto nientemeno che a un omicidio).

Nel frattempo il villaggio va in rovina, i raccolti sono cattivi, così tutti gli abitanti decidono di abbandonarlo per trasferirsi in una terra più florida. Dochȃgne, ormai nonno, guida così la sua schiera di parenti verso una nuova “terra promessa”: così come era iniziato, il romanzo della crudezza e del realismo, e la narrazione senza orpelli di Ragon, si chiude, lasciando dietro di sé un vivido affresco di un passato per il quale i protagonisti alla fine si rendono conto di aver combattuto non tanto per il re, quanto, come dice Dochȃgne stesso “per essere padroni in casa nostra”.

Chantal Fantuzzi