Il romanzo di Erich Maria Remarque Im Westes nichts neues (Niente di nuovo sul Fronte Occidentale) è giustamente considerato una delle più importanti opere letterarie antibelliche di tutti i tempi. Basato sulle memorie di Remarque, egli stesso combattente (sia pure per nemmeno due mesi) sul fronte occidentale durante la Grande Guerra, il romanzo narra la storia del soldato Paul Bäumer, arruolatosi assieme ai suoi compagni di classe nell’esercito germanico spronato dai discorsi patriottici del loro insegnante, Kantorek. Gli ideali patriottici e i sogni di gloria si infrangono contro la brutale e disumana realtà della guerra di trincea, fatta di interminabili attese, di freddo e fame e stanchezza e di assalti e contrassalti sanguinosi quanto futili. Chi sopravvive ha perso ogni speranza e gioia di vivere, sopraffatto da quella che decenni dopo sarebbe stata finalmente diagnosticata come PTSD (Post-Traumatic Stress Disorder o Disturbo da Stress Post-Traumatico), quel terribile stupro dell’anima che fu finalmente riconosciuto e diagnosticato solo negli anni ’80 del 20mo Secolo.

É praticamente impossibile realizzare un film contro la guerra: come ha fatto giustamente notare François Truffaut, non si può realizzare un film sulla guerra senza glorificarla in qualche modo, e questo a causa della natura stessa della bestia: il Male, l’orrore, la violenza efferata esercitano da sempre un fascino irresistibile sull’animo umano e persino i nichilistici Uomini Contro di Francesco Rosi (1970) e Platoon di Oliver Stone (1986) non riescono a sfuggire a questo apparente controsenso.

Felix Kammerer (27) interpreta Paul Baummerer, il protagonista del romanzo (ora traslato in film)

Attenzione: quanto segue contiene spoilers. Tanti.

Nel caso della seconda riduzione cinematografica dopo quella di Milestone del 1930 (e terza se contiamo il film per la TV di Delbert Mann del 1979), c’è da dire che i realizzatori non ci provano nemmeno. Si tratta dell’adattamento meno fedele sia alla storia che allo spirito del romanzo: punteggiato da scene di battaglia cruente e viscerali alle quali il pubblico è ormai abituato dai tempi di Saving Private Ryan di Steven Spielberg, il film di Edward Berger riesce a stravolgere sia la trama che lo spirito dell’opera di Remarque. Il protagonista si arruola nel 1917 anziché nel 1914, in un periodo nel quale la situazione disperata degli Imperi Centrali era ormai ben conosciuta dal pubblico nonostante la censura. Manca completamente il periodo di addestramento sotto il brutale e sadico caporale Himmelstoss, e il personaggio fondamentale di Stanislaw “Kat” Katzinsky, il “vecchio” esperto soldato che sa come procurarsi cibo ed equipaggiamento è ridotto al rango di ladro di galline (o, meglio, di oche). Manca (ed è una dimenticanza imperdonabile) il temporaneo ritorno di Paul a casa, l’impossibilità di relazionarsi con i civili che non possono capire e che lo tacciano di vigliaccheria per aver semplicemente esposto la realtà delle trincee, e con la sua stessa famiglia. Manca lo struggente addio alla madre morente, con cui può scambiare solo poche parole d’affetto, la sua sensazione di non appartenere più a quel mondo che lo ha generato. Morire per la Patria non è né dolce né decoroso, come sottolineò Wilfred Owen: è solo morire, spesso in maniera atroce, troppo spesso senza nemmeno il conforto di un “perché”.

In compenso, vengono aggiunte scene che sembrano solo avere lo scopo di scioccare: la morte assurda di tante reclute a causa di un attacco con i gas “per essersi tolti la maschera troppo presto” (l’uso dei gas a questo punto della guerra era talmente diffuso che neanche la recluta più sprovveduta si sarebbe tolta la maschera senza ordini), l’attacco dei carri armati francesi che sembra quasi una scena di invasione aliena (i carri erano un’arma ben conosciuta e le prime armi anticarro già in dotazione alla truppa) e l’uso di lanciafiamme a bruciapelo (non il modo più intelligente di usare questo tipo di arma) sono alcuni degli esempi più spettacolari in un film che riesce a dare ragione in pieno a François Truffaut.


In mezzo a queste sequenze, il film interrompe la narrazione in prima persona e ci porta dietro le linee: sul tavolo dei negoziati con Matthias Erzberger (Daniel Brühl), accorato sostenitore della causa della pace a fronte dell’intransigenza del generale francese Foch, e  nei quartieri del generale Friedrichs, che sogna un’ultima vittoria per riscattare l’onore perduto del Reich. Togliendo l’obiettivo dalle trincee in cui Bäumer e quanto rimane dei suoi camerati sono costretti a sguazzare tra fango e sangue e portandolo in una prospettiva storica, perdiamo la terribile prospettiva in prima persona che toglie ogni significato al favoleggiato “quadro globale”. La sofferenza è sofferenza, ci insegna Remarque: i motivi non hanno più peso.

Dove nel romanzo la morte è casuale, meccanica e impersonale, nel film diventa motivata e inutilmente romanzata: Kat non muore colpito da una minuscola scheggia in uno dei tanti bombardamenti, ma in uno scontro con la famiglia del contadino a cui aveva rubato un’oca all’inizio del film. La morte lenta e dolorosa del soldato francese pugnalato da Paul non avviene di notte in un’azione di pattugliamento ma in pieno giorno nel mezzo di un assalto, e la stessa morte di Bäumer che Remarque non descrive (la Morte non è che Morte, alla fine) giunge in un ultimo inutile assalto alle linee francesi, cruento quanto la sensibilità moderna può concepire e la cinematografia può osare, a pochi secondi dall’entrata in vigore dell’armistizio. Dove Remarque si limita a constatare, con l’unico passaggio in terza persona, che Bäumer è rimasto ucciso, allo spettatore viene mostrata una lotta senza quartiere, sanguinosa ma spettacolare.

Alla fine, è questa la pecca principale di All Quiet on the Western Front, edizione 2022: conferma pienamente la tesi di Truffaut senza tentare minimamente di sottrarvisi. La guerra e uno spettacolo, crudo e orripilante ma pur sempre spettacolo, già visto in tanti altri film che non portano però lo stesso titolo ed eredità. Bäumer non giunge mai, come il lettore/spettatore, al sentimento di empatia verso il nemico, che anzi viene spesso e volentieri rappresentato come implacabile e quasi disumano.

Più allarmante ancora e quanto il film sembra sostenere la tesi della “pugnalata alle spalle” da parte della socialdemocrazia, che portò al revanscismo germanico e all’ascesa del nazionalsocialismo. Del messaggio di Remarque sull’assurda follia della guerra e sulla necessità di mantenere quel poco di umanità restante nel rapporto con i compagni di sventura da entrambe le parti rimane ben poco.

Alla fine, non abbiamo imparato molto di più sulla Grande Guerra: il film originale e altre grandi opere come Paths of Glory di Kubrick hanno già svolto il ruolo di insegnante. Speriamo di non aver imparato qualcosa sul mondo moderno.