Divagazioni a margine dello studio della Storia

di Paolo Camillo Minotti

*****

Con questo interessante articolo Minotti si toglie qualche sassolino dalla scarpa, perché no? Il mio ricordo di quell’azione politica in favore della Civica è splendido: eravamo quattro gatti con pochi mezzi e poco potere ma l’elettorato ci diede ragione poiché la nostra causa era buona. La “casta” si mobilitò e si arrabbiò, ma invano.

*****

Henri Füssli, bozzetto per il Giuramento del Grütli (Wiki commons, Railko) – https://creativecommons.org/licenses/by/3.0/deed.en

Prendiamo spunto da un’intervista a Maurizio Binaghi, “esperto” per l’insegnamento della storia nelle scuole dell’obbligo del Canton Ticino, apparsa su “Cooperazione” del 27 luglio 2021. Il personaggio forse è noto a qualche cittadino in particolare per le sue non dimenticate prestazioni televisive in occasione della votazione cantonale sull’iniziativa per l’insegnamento della civica (iniziativa a cui egli si opponeva veementemente tra altro con l’argomento pretestuoso che la civica andrebbe insegnata nell’ambito delle lezioni di storia). Il problema è che, come avevo rilevato in una serata pubblica a Bellinzona a cui partecipavano come relatori pro e contro il direttore del DECS Manuele Bertoli e il dottor Alberto Siccardi, pure la storia viene poco o per niente insegnata, sia per il ridotto numero di ore di insegnamento nella griglia oraria, sia anche e soprattutto per una sistematica “evacuazione” dai programmi della storia svizzera, sostituita nel migliore dei casi da un “pastone” di storia universale senza capo né coda (e senza considerare le non trascurabili differenze nell’evoluzione storica tra un paese e l’altro d’Europa e  tra le diverse regioni del mondo) e spesso, peggio, da un racconto marcatamente ideologico e anti-occidentale che  dimentica totalmente la storia europea (compresa la storia del colonialismo nel bene e nel male) a profitto della sola storia della decolonizzazione e delle recenti lotte di liberazione nei Paesi del Terzo mondo, spesso raccontate in tono agiografico e da propagandisti politici (per intenderci: la storia di Mandela, di Che Guevara, di Ho Chi Minh e così via). La mia impressione è che manchi un quadro indicativo generale della storia da insegnare, di guisa che ciascun docente si può sbizzarrire a scegliere i temi a lui più congeniali e “simpatici”, prescindendo da qualsiasi priorità e/o ordine logico di successione cronologica, di importanza storica oggettiva dell’avvenimento e di importanza in riferimento al paese e al continente in cui la lezione viene svolta.

Bicchierata della vittoria al de la Paix: la Civica ha vinto! I personaggi nella foto sono ben noti e nominarli ci pare superfluo

Di tutto e di più, ad eccezione della storia svizzera!

L’amico Omar Gisler si lamentava nella “Weltwoche” di qualche anno fa che ai suoi figli alla scuola media di Mendrisio o di Morbio non veniva insegnato nulla della storia svizzera, ma al contrario avevano un docente che si dilungò per quasi un anno a fare la storia delle repubbliche marinare italiane. Gli andò ancora bene, perché la storia delle repubbliche marinare è  appassionante e non priva di interesse anche per i suoi rapporti con la storia europea e anche svizzera: a me capitò negli anni ’70, frequentando il corso preparatorio alla Magistrale, di dovermi sorbire per un anno nella lezione di geografia l’apologia della Comune cinese (da parte di un “docente” che poi fu condannato qualche anno dopo per favoreggiamento delle Brigate Rosse e furto ed esportazione di granate militari) e in quella di storia di dovermi leggere delle astruse elucubrazioni sulla “coscienza autoritaria” e altri esercizi di sociologia da strapazzo.

Il prof. Binaghi ha poi ripetuto le solite trite e ritrite insulsaggini e banalità contro la storia svizzera come veniva insegnata “ai vecchi tempi”: per esempio che il patto del 1308 non è documentato in documenti coevi, ma cominciò a essere citato solo nella seconda metà del Quattrocento, e che semmai come si scoprì più tardi se ci fu un patto fu quello del 1291 (ma egli comunque ne sminuisce l’importanza dicendo che in nessun caso si può parlare per quella Svizzera dei tre Cantoni primitivi anche solo di un abbozzo di Stato). Secondo il sentenziatore Binaghi il “mito” del patto originario del 1291 sarebbe stato inventato nell’Ottocento per giustificare il nuovo stato federale elvetico sorto nel 1848 e difatti fu solo a partire da fine ‘800 che si cominciò a festeggiare il 1° agosto.

Quod non est in actis, non est in mundo?

Certo, nell’Ottocento, sull’onda dell’illuminismo e degli studi storici sette-ottocenteschi (si pensi al grande storiografo della vecchia Confederazione Johannes von Müller, si pensi allo storico Zschokke vissuto nel primo Ottocento, degli eruditi in confronto ai quali gli attuali storici postsessantottini – dalla prosa illeggibile e le cui note in calce sono più lunghe del testo principale – sono dei poveretti), ci fu una riscoperta della storia svizzera. Ma si può riscoprire solo ciò che già è esistito! E così Johannes von Müller (che ispirò tra l’altro al grande Friedrich Schiller il suo “Guglielmo Tell”), a sua volta aveva ripreso gli scritti storici del glaronese Tschudi e di altri che a partire dal Quattro-Cinquecento raccontarono per primi l’epopea dell’antica Confederazione, forgiata da un fiero desiderio di indipendenza e da indomiti e valorosi soldati. Ma il fatto che se ne cominciò a scrivere solo nel Quattro-Cinquecento, non vuol dire che prima non è esistito nulla. Per certi storici “Quod non est in actis, non est in mundo!”: un’impostazione fuorviante e che porta a conclusioni errate e a una visione monca della storia. Occorre ricordare che nei secoli passati, fino al Medio evo ma in parte anche più tardi, una parte considerevole del sapere e delle decisioni politiche in specie delle piccole comunità locali (per non parlare della storia di famiglia) veniva trasmessa oralmente. Gli atti principali, come gli Statuti delle comunità o le franchige ricevute dal Sovrano, erano messi per iscritto ma molti accordi erano presi per deliberazione verbale e tramandati oralmente da generazione in generazione.

Nel caso del patto del 1308, poi, risulta futile disquisire se sia veramente avvenuto o no; infatti una volta dimostrato ch’esso fu preceduto dal patto del 1291 – di cui c’è una documentazione inconfutabile – diventa perfettamente plausibile, anzi molto probabile, che quest’ultimo sia stato seguito da accordi successivi. Tantopiù che qualche anno dopo (1315) seguì la battaglia del Morgarten, nella quale i Confederati batterono i cavalieri asburgici e imperiali; e sarebbe veramente da sciocchi pensare che i Waldstätten abbiano ingaggiato una battaglia così impegnativa senza consolidare la propria intesa negli anni precedenti! Certo qualche storico ha persino negato che la battaglia del Morgarten sia effettivamente avvenuta (sempre per il motivo che manca il documento scritto inconfutabile….). Ma sarebbe veramente inspiegabile (o presuppone una forte dose di ingenuità il crederlo) il fatto che gli Asburgo abbiano poi rinunciato a far valere il loro dominio sulle vallate della Svizzera centrale, se non fossero stati sconfitti al Morgarten….Qualcosa non quadrerebbe. La logica e il seguito degli avvenimenti valgono di più di un documento scritto!

Il “giallo” del discorso di Guisan al Rütli

A tal proposito vorrei citare un caso della storia svizzera del Novecento, che dimostra come occorra andarci cauti a prendere per oro colato un documento scritto: il famoso discorso di Guisan a tutti i comandanti di unità sul praticello del Rütli del 25 luglio 1940. Per molto tempo, perlomeno durante la guerra, non venne divulgato il testo esatto del discorso pronunciato, ma fu diffuso nelle settimane successive solo un proclama patriottico / appello alla resistenza ad ogni costo, che si presumeva riassumesse grossomodo quanto il Generale aveva pronunciato al Rütli. Quando parecchi anni dopo gli storici cominciarono ad andare alla ricerca dei documenti scritti, trovarono una bozza di testo scritto che aveva tutta l’aria di essere quel discorso, che i critici di Guisan e della Svizzera nella II guerra misero sotto accusa. Molti fecero mostra di scandalizzarsene, perché quel testo conteneva dei giudizi politici molto duri su alcuni scritti apparsi su fogli socialisti e a loro parere distruggeva quell’immagine bonaria e super partes che fino ad allora quasi tutti avevano avuto di Guisan. Finchè alcuni storici più attenti, tra cui l’argoviese Willy Gautschi, dimostrarono dopo accurate ricerche che sicuramente quel discorso non fu pronunciato. Primo perché tutti i superstiti partecipanti che Gautschi riuscì a interrogare negli anni ’80 o di cui spulciò diari privati o testimonianze pubblicate (almeno una quarantina di persone), erano concordi nel dire che Guisan non aveva fatto accenni “politici”, tantomeno in stile polemico. Secondariamente non poteva aver letto quel testo, perché tutti i testimoni superstiti attestarono che il discorso del Generale non durò più di mezz’ora (c’è chi dice 20 minuti, chi 25, chi 35 al massimo), ciò che è confermato anche da documentazione dell’epoca; orbene la bozza scritta ritrovata negli archivi dell’ état major particulier du Général (e che fu scritta probabilmente dallo scrittore Bernard Barbey, segretario e consigliere del Generale) consta di 24 o 25 cartelle dattiloscritte, di cui 17 o 18 di testo base e 6 o 7 di lunghe citazioni in specie della storia militare (per es. di alcuni pensieri del generale Wille); per leggere 24 cartelle dattiloscritte Gautschi calcola che occorresse almeno un’ora e mezza (secondo noi anche di più). In terzo luogo, tutti i testimoni presenti quel giorno ricordavano che il generale non lesse il testo che aveva in mano, ma parlò a braccio. In quarto luogo, alcuni partecipanti che tennero un diario personale (per esempio il divisionario Du Pasquier e il comandante di corpo Labhart) furono delusi del discorso del Generale, giudicando che esso non rispondesse alle aspettative che la convocazione in un luogo così speciale aveva suscitato. Du Pasquier, che pure era un estimatore e sostenitore di Guisan, scrisse nel suo diario che al Generale era mancato quell’afflato che avrebbe potuto trascinare e infiammare gli animi; orbene questa è una ulteriore prova che aveva parlato a braccio dando per così dire la farina del suo sacco e che non aveva letto il testo di Barbey pieno zeppo di citazioni dotte. Guisan non era un intellettuale molto sofisticato e soprattutto non era un grande oratore; non aveva la capacità (una dote rara) di improvvisare discorsi molto elaborati su temi concettuali e astratti. Sapeva certo parlare a braccio, ma su un registro concreto, ripetendo concetti semplici e conosciuti che appunto si possono memorizzare facilmente, e restando nel campo strettamente militare e delle necessità del momento; a un intellettuale come Du Pasquier un tale discorso appariva banale.

Che cosa era avvenuto dunque? Gautschi, basandosi anche su documentazione scritta dell’epoca, asserisce che Guisan fu costretto a raccorciare il discorso per il fatto che vi era stato un ritardo di almeno 40 minuti nella partenza del battello che da Lucerna trasportò i convenuti al Rütli e d’altra parte non si voleva ritardarne il ritorno in quanto essi dovevano rientrare entro sera al comando delle rispettive unità. Fu solo un contrattempo dei mezzi di trasporto a indurlo a non leggere il testo che Barbey gli aveva preparato? Personalmente non lo credo: forse Guisan, avendolo letto nel corso del viaggio o la notte precedente, ebbe qualche dubbio sull’appropriatezza di qualche passaggio del testo e preferì farne a meno e improvvisò. Egli era dotato di un solido buon senso ed era consapevole che il suo ruolo era quello di unificare, di favorire la coesione nazionale e non di accrescere le discordie, percui intuitivamente capì forse che quel discorso sarebbe stato inopportuno. Era meno colto di Barbier e Du Pasquier, ma in compenso aveva i piedi ben piantati per terra e non fu mai avulso dalla realtà del paese. Chissà? Con certezza non si saprà mai che cosa pensò esattamente Guisan, dato che non lo lasciò scritto.

Ad ogni modo e per concludere: questo episodio storico dimostra che anche i “famosi” documenti scritti – che alcuni considerano sacri al pari del Corano per i musulmani zelanti – vanno presi con le pinze.

La politica d’asilo e l’accordo segreto con la Francia nel ’39-‘40

Vi sono peraltro altri episodi della politica svizzera nella II guerra mondiale, che si potrebbero citare e che inducono a relativizzare il documento scritto. Per esempio da testimonianze di chi visse quell’epoca, risulta che certe decisioni (del Consiglio federale o della Banca Nazionale) vennero prese per accordo orale e non verbalizzate. In alcuni casi ciò è assodato, in altri casi non è dimostrato e la questione resta controversa. Per esempio è assodato che certe decisioni nel campo della politica d’asilo, ufficialmente molto restrittive e rigorose, in qualche caso con ordini verbali si diede ordine di applicarle con flessibilità. Una politica ufficialmente restrittiva poteva essere motivata dal timore di eventuali ritorsioni di Hitler (al limite un’invasione del nostro paese), oppure anche più banalmente dal timore che una politica dichiaratamente troppo accogliente avrebbe potuto incoraggiare una massiccia “invasione” di ulteriori rifugiati. Vi fu un caso molto conosciuto e tuttora controverso, che fu cagione di forti dissensi tra il Consiglio federale e il Generale Guisan (non fu il solo ma forse per sequenza temporale fu il primo grande dissidio fra il generale e il Governo): quello degli accordi segreti con la Francia durante la “drôle de guerre”, in base ai quali in caso di attacco tedesco attraverso la Svizzera l’esercito francese si impegnava a intervenire a sostegno della Svizzera. Nella versione ufficiale avallata anche da molti storici, il Consiglio federale sostenne sempre di non esserne stato al corrente e anzi rimproverò severamente il Generale (sia durante la guerra sia alla fine della stessa, nel messaggio di rendiconto alle Camere sul periodo di guerra) per non averlo informato e avere in tal modo oltrepassato le sue competenze. Al di là del merito della questione, a sapere cioè se quegli accordi fossero compatibili con la neutralità (secondo me lo erano, ed erano in quelle circostanze anche la cosa più sensata che un generale in capo dell’esercito svizzero potesse fare – nota bene: quando nessuno riteneva possibile un crollo della Francia come poi avvenne), sussiste pure qualche dubbio sul fatto che il Consiglio federale non ne sapesse nulla. Questi dubbi sono avvalorati da diversi motivi, fra cui in primis quanto detto sopra riguardo alle comunicazioni orali e informali nonché alle decisioni non verbalizzate. Inoltre non va dimenticato che dalla fine del 1939 al 1945 vi fu un avvicendamento praticamente completo del Consiglio federale (fra cui: due morti in carica o costretti a ritirarsi per motivi di salute nel corso del 1940; e due altri dimissionari alla fine del 1940). Per cui quando il C.F. affermava nel 1941 o 1942 o 1943 (e a maggior ragione nel 1946) di non averne saputo nulla, non era più lo stesso C.F. che eventualmente ne era stato informato negli ultimi mesi del 1939 o all’inizio del 1940. Lo sappiamo tutti che non sempre la trasmissione delle informazioni avviene in modo perfetto al momento degli avvicendamenti in qualsiasi carica (tantomeno quando si muore in carica improvvisamente, come fu il caso di Motta nel gennaio 1940, o quando si è costretti a dimissionare per gravi problemi di salute morendo poco più di un mese dopo, come fu il caso di Obrecht nell’estate 1940). Ma il motivo decisivo che fa dubitare della tesi del Consiglio federale risiede nel fatto che appare inconcepibile che una personalità come il generale Guisan (ligio alle istituzioni e tipica “Integrationsfigur”, come dicono i tedeschi) possa avere agito alle spalle del C.F. e soprattutto alle spalle del suo amico e “grande elettore” Rudolf Minger, capo del Dipartimento militare federale fino alle sue dimissioni nel dicembre 1940, con il quale condivideva un profondo anti-nazismo e la simpatia per la Francia. A mio avviso è molto più probabile che Guisan abbia informato il capo del DMF verbalmente e che quest’ultimo a sua volta abbia informato – solo verbalmente, per ovvii motivi – i suoi colleghi di Governo. Infatti informare per iscritto, per chi conosce come funziona l’apparato amministrativo di palazzo federale, significa assumersi il rischio di una fuga di notizie; rischio che per un argomento così delicato non si poteva assolutamente correre! Che poi, dopo il crollo della Francia e dopo che i documenti riguardanti tali accordi erano caduti in mano ai tedeschi a Charité-sur-Loire, ai consiglieri federali (o perlomeno a quelli fra essi che erano effettivamente al corrente, perché per i motivi detti non è certo che tutti lo fossero) facesse comodo affermare di essere stati all’oscuro di tutto, lo si può anche capire. Poteva essere anche una posizione imposta dalla necessità di non pregiudicare totalmente la credibilità della nostra neutralità agli occhi dei tedeschi. Ma è tutt’altro che sicuro che si trattasse della verità.

Anche Gautschi ritiene probabile la tesi che il C.F. fosse all’oscuro della cosa basandosi tra altro su un appunto scritto di Pilet-Golaz, secondo cui non ci sarebbe mai stato un impegno automatico della Francia a venire in soccorso alla Svizzera (indice questo secondo Gautschi che egli non ne era informato). Ecco un altro documento scritto divinizzato! Ma Pilet-Golaz non è la bocca della verità. E poi si sa che nel 1940-’41 egli faceva l’occhiolino alla Germania nazista….perchè sembrava che essa stesse vincendo la guerra!