A ventitré anni, Ghandi che aveva studiato Giurisprudenza alla University College of London, chiamato al suo primo controinterrogatorio in tribunale svenne sulla sedia e fu costretto rimborsare la parcella al cliente. La carriera di un giovane – sposatosi a tredici anni con la coetanea Kastürbā e già padre di un bambino di pochi mesi – sarebbe potuta finire così, disastrosamente, se un imprenditore non gli avesse offerto la possibilità di seguire un processo civile in Sudafrica, a tutela dei lavoratori indiani contro l’Apartheid. Proprio durante il viaggio in treno da Durban a Pretoria, il giovane Ghandi fu costretto a scendere alla stazione di Maritzburg, per essersi rifiutato di cedere il suo posto in prima classe – regolarmente pagato – ai “bianchi”.

Conoscendo quindi sulla propria pelle l’apartheid, ovvero la politica di segregazione razziale istituita nel 1948 dal primo ministro Daniel François Malan, Ghandi si batté per i suoi connazionali in Sudafrica, pretendendo per loro il diritto di voto, un’equa tassazione e il riconoscimento dei matrimoni misti, e fondando un partito, il Natal indian congress, considerato l’antesignano dell’African national congress di Nelson Mandela.

A capo di un corpo volontario di portaferiti a fianco degli inglesi nella Seconda guerra anglo-boera, aprì una fattoria chiamata “Tolstoj”, dal nome del grande intellettuale russo con il quale l’attivista indiano aveva intrapreso, in quegli anni, un proficuo scambio epistolare.

Votatosi al digiuno (rotto solo da noci e frutta fresca) e alla castità, elaborò la teoria etica del satyagraha ovvero della “resistenza passiva”, cioè dell’ “insistenza per la verità”.

Perseguitato e processato dal governatore, il generale Smuts, come sovversivo, una volta liberato dal carcere regalò a questi un paio di sandali fabbricati in cella; tornato in India nel 1915 fu accolto come un eroe.

In India, una colonia inglese suddivisa in principati, che contava circa 300 milioni di indù e 100 milioni di musulmani, Gandhi si propose di propugnare la satyagraha, ovvero la disobbedienza civile, attraverso la non-violenza, contro il British Raj, il dominio britannico. Lo sciopero indetto, sfociò, però, nel 1919 nel sangue con la repressione del massacro di Amritsar, nel Punjab, nel quale i britannici – intenzionati a smuovere il Paese nella paralisi in cui era piombato – trucidarono dai 400 ai 1000 indiani.

Riconoscendo la parziale propria colpevolezza, nell’avere indotto gli indiani a una resistenza troppo paralizzante, Ghandi ciritcò sia le azioni del Regno Unito, sia le violente rappresaglie degli indiani, esponendo il principio che la violenza sia malefica e non possa essere giustificata; quindo Gandhi intraprese l’arma del digiuno, interruppe ogni forma di cooperazione con la Corona, e, rasatosi la testa e indossato il dohti, l’abito dei contadini indiani, decise di danneggiare l’importazione dei tessuti provenienti dalle manifatture britanniche preferendo a questi il kadhi, il tradizionale panno di cotone filato dagli indiani, filandolo lui stesso.  

Divenuto il “Mahatma” (la “Grande anima”), nel 1930 intraprese la celebre “marcia del sale”, percorrendo a piedi 400 chilometri che lo separavano dal mare, per protestare contro la tassa su “l’unico condimento dei poveri”, ovvero la tassa sul sale imposta dalla Corona.

Il 15 agosto 1947 le truppe britanniche lasciarono il Paese, ma la data fu chiamata “data della fine dell’Impero coloniale britannico nel subcontinente indiano” perché comportò anche la separazione del Paese in due stati indipendenti: l’India, a maggioranza Indù, e il Pakistan, a maggioranza musulmana, con conseguenti, massicci esodi ma anche violentissime guerriglie per la rivendicazione, da parte di entrambi gli stati, del territorio del Kashmir (oggi politicamente diviso tra India, Pakistan e Cina). In seguito all’abbandono delle truppe britanniche e al crollo della civiltà in India, Gandi si ritirò a pregare e digiunò.

Un anno dopo, il 30 gennaio del 1948, alle cinque della sera, un fanatico indù, Nathuram Godse, lo omaggiò inchinandosi ai suoi piedi e gli sparò tre colpi a bruciapelo. A 78 anni, morì così la “grande anima” dell’India, gemendo “He Ram” che significa “Oh, Dio”.

Godse fu arrestato, processato, condannato a morte e infine ucciso nel 1949. Oggi, nell’India “estremista” indù, curiosamente cresce il “culto” per l’assassino di Ghandi, tra una moltitudine che sostiene che, se Godse non avesse ucciso Gandhi, l’India sarebbe crollata come sarebbe poi successo all’Unione Sovietica tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta.

Il 15 agosto 1947, nel giorno dell’indipendenza, Nehru era diventato Primo ministro dell’India. L’erede spirituale di Ghandi aveva creato la Commissione di pianificazione dell’India e redasse il primo piano quinquennale nel 1951, avendo, come obiettivo, un’economia mista con i settori strategici come le miniere, l’energia elettrica e l’industria pesante, sotto il controllo del governo e al servizio dell’interesse pubblico, nonché quello di ridistribuzione della terra, costruzione di canali di irrigazione, dighe e fertilizzanti per incrementare la produzione agricola. Nehru aveva così guidato un governo al quale aveva fatto, però, una ferrea opposizione la Lega Musulmana Panindiana (All India Muslim League) di Muhammad Ali Jinnah che esigeva, invece, la creazione di uno stato separato per i musulmani; Nehru era così stato costretto ad accettare la partizione dell’India, secondo un programma realizzato dai britannici il 3 giugno 1947.

Nehru affidò alla figlia Indira molti dei suoi affari esteri; grazie a lei, il Congresso ottenne una schiacciante maggioranza nelle elezioni del 1952.

Ghandi (durante uno dei suoi digiuni) e Indira, la figlia di Nehru, suo primo ministro

Nehru si trovò a guidare l’India indipendente dal 1947 al 1964, mentre questa era contesa sia dagli Stati Uniti che dall’Unione Sovietica: infine, Nehru fondò il Movimento dei Paesi Non Allineati, al di fuori della logica USA-URSS, ma scelse di riconoscere la Repubblica Popolare Cinese, senza accusare Pechino di essere l’aggressore nel conflitto coreano, proprio la Cina, però, invase, durante, la guerra sino-indiana del 1962, il nord-est dell’India costringendo Nehru ad accettare aiuti militari statunitensi. Nehru morì due anni dopo per un attacco cardiaco e, come Ghandi, fu cremato sulle rive del fiume Yamuna.

La figlia Indira divenne la prima donna (e l’unica, ad oggi) Primo ministro dell’India, e fu una figura centrale nel Congresso Nazionale Indiano. Eletta dal partito nel 1966 contro il rivale Desai, succedette al predecessore – deceduto in quell’anno – Shastri, come Primo ministro indiano.

Indira aveva studiato a Oxford ma era stata espulsa per “cattiva condotta”; nel 1942 aveva sposato Feroze Gandhi (che non aveva legami di parentela con il Mahatma), generando due figli, uno dei quali, Rajiv, sarebbe divenuto suo successore come primo ministro; tuttavia si sarebbe separta presto dal marito.

Durante il suo secondo mandato l’India fu segnata dai tumulti nazionali anche perché nel nord-est gli Stati tribali erano in fermento e l’Unione Sovietica aveva invaso l’Afghanistan.

Indira decise così di ricorrere all’esercito per reprimere i disordini sociali, ma la decisione le valse l’odio del movimento sikh, che si batteva per l’indipendenza del Punjab indiano; Indira Gandhi, infatti, scatenò contro i guerriglieri un’offensiva militare che espugnò il Tempio sacro dei sikh con un bombardamento e una sanguinosa occupazione, uccidendo molti sikh.

Per vendetta, le sue stesse guardie del corpo, il trentaquattrenne Beant Singh e il ventunenne Satwant Singh, la mattina del 31 ottobre 1984, la freddarono con diversi colpi di pistola.

L’assassinio di Indira provocò gravissimi disordini nel Paese, migliaia di cittadini sikh vennero uccisi per ritorsione.

Il 3 novembre, circa un milione di indiani partecipò ai suoi funerali di Indira, il suo corpo venne cremato e le sue ceneri disperse sull’Himalaya.

La sera prima di essere assassinata, rientrando, Indira aveva dichiarato: «Non ho l’ambizione di vivere a lungo, ma sono fiera di mettere la mia vita al servizio della nazione. Se dovessi morire oggi, ogni goccia del mio sangue fortificherebbe l’India.»