Una decisione irrevocabile: passaggio del Rubicone o patto del Nazareno? (titolo originale)
In una fredda mattina di gennaio del 49 A.C. il Generalissimo passeggiava meditabondo sulla spiaggia di Rimini, incerto sul da farsi. Spirava una forte bora e le cime dell’Appennino biancheggiavano di neve. Gaio fissava le onde che si frangevano contro la diga di alghe e detriti che le correnti avevano depositato sul bagnasciuga . Come appariva diverso, quel mare grigio sovrastato da nuvole biancastre, dall’azzurro Tirreno di Pianosa, l’isola cara ai romani, ove più volte vi si era recato ospite di amici e parenti! Egli si trovava adesso di fronte a una scelta fondamentale, da cui non sarebbe dipesa soltanto la sua carriera, ma la salvezza della Patria.
“Vedi”, lo avevano ammonito i tribuni della plebe Marco Antonio e Quinto Cassio, due fra i pochi fedeli rimastigli nella capitale, “la Repubblica è alla fine, dopo mezzo secolo di guerre civili, vendette e proscrizioni: la vecchia Costituzione è superata, la corruzione dilaga per ogni dove, i barbari premono alle frontiere, approfittando della nostra debolezza. Un cambiamento radicale è indispensabile, e tu sei l’unico in grado di realizzarlo. Questo è il tuo momento: ora o mai più. Scendi in campo! “.
Queste parole, che gli risuonavano alle orecchie, erano un balsamo per la sua ambizione e per il suo spirito d’avventura. Dopo la gloriosa campagna di Gallia pareva che nulla più potesse fermarlo. Anche se Pompeo, un tempo suo genero ma oggi capo dell’oligarchia di potere, aveva ordinato la mobilitazione generale nel timore delle sue mosse, egli godeva pur sempre di un immenso prestigio nell’ambiente militare, e soprattutto contava sull’indiscussa fedeltà della Tredicesima Legione, acquartierata per l’inverno nella vicina pineta di Ravenna. Cosa fare , dunque? Dare ascolto ai suoi partigiani, varcare il confine della Gallia Cisalpina e diventare così nemico dello Stato, oppure cercare un accordo con il sistema che , sia pure morente, era tuttora in grado di farlo uccidere, sequestrargli l ‘intero patrimonio e magari incarcerare i membri della sua famiglia?
La posta in gioco non era soltanto lui, le sue ricchezze e il destino della gens Julia , ma l’avvenire stesso della civiltà latina. Se la corrotta, litigiosa e inconcludente classe di governo non fosse stata cacciata in fretta, l’intero imperium sarebbe crollato a breve, e ciò lo angosciava profondamente. D’altra parte, però, la tragica sorte a cui rischiava di esporre i suoi congiunti, i clienti, gli uomini che lavoravano per lui e ai quali serbava grande affetto, non gli rimaneva per nulla indifferente. Tanto più che già da settimane, da quando si era sparsa la voce di una sua possibile sfida all’ordine costituito, gli erano giunti pressanti inviti dai nipoti e dalla moglie Calpurnia, di valutare bene le sue mosse e di risparmiare loro i grandi dolori derivanti da un suo gesto sconsiderato.
Lacerato da questi sentimenti opposti, l’amore per la Patria, quello per la famiglia e la preoccupazione per i suoi averi, Cesare si prese qualche giorno di riflessione. Il Senato , favorevole a Pompeo, interpretando come debolezza questa fase d’attesa , gli inviò a Rimini due plenipotenziari per trattare le condizioni di un auspicabile compromesso: Fausto Silla e Lucio Domizio, entrambi privi di scrupoli, pronti alle azioni più nefande a tutela dei propri interessi. Costoro alternarono le lusinghe alle minacce, gli chiesero di fare un passo indietro e di rinunciare al Consolato cui pure aveva diritto, in nome della pace sociale e del suo innato senso di responsabilità. Lo informarono poi con tono di sfida che i senatori avevano già votato il decreto ultimativo delle situazioni d’emergenza: dent operam consules, praetores, tribuni plebis, quique pro consules sunt ad urbem , ne quid respublica detrimenti capiat ( vedano i consoli, i pretori, i tribuni della plebe e i proconsoli che sono alle porte di Roma, che la Repubblica non abbia a subire danno ).
Ciò significava, in altri termini, che qualora avesse sfidato il potere di Roma , non solamente da quel momento poteva essere ucciso, ma i suoi familiari condotti in carcere e le sue proprietà confiscate. Di fronte a questa manifestazione d’energia ebbe paura, per la prima volta nella sua vita di combattente avvezzo ad ogni rischio: la battaglia contro il Senato si palesava ben più difficile di quelle contro Vercingetorige, e la prospettiva di marciare sull’Urbe molto più incerta dell’assedio di Alesia o di Marsiglia. Una sera, passeggiando lungo la riva del Rubicone, ne aveva quasi deciso l’attraversamento per la mattina dopo, alla testa dei veterani della guerra gallica. La notte, però, non riuscì a chiudere occhio: i timori per l’incolumità dei suoi cari e la probabile fine della gloriosa stirpe dei Giuli lo inseguivano come incubi. Se egli poteva disporre di se stesso e della propria esistenza, che diritto aveva di mettere a repentaglio quella dei figli, dei nipoti e la stessa pace del popolo romano?
All’alba prese finalmente la risoluzione che avrebbe segnato il destino proprio e quello dell’impero: sarebbe sceso a patti con i suoi nemici. Convocò quindi Fausto Silla e Lucio Domizio, pregandoli di riferire a Pompeo che ne accettava l’ultimatum ed era pronto a consegnargli le legioni a lui fedeli, ponendo tuttavia alcune condizioni: chiedeva innanzitutto l’immunità giudiziaria per sé e per la propria famiglia, l’assegnazione del Governatorato perpetuo della Gallia Cisalpina, un emolumento di dieci milioni di sesterzi l’anno e il trionfo solenne come riconoscimento delle recenti vittorie. In cambio avrebbe giurato fedeltà al Senato e al Popolo di Roma e s’impegnava a ritirarsi per sempre dall ‘ agone politico. Per rendere più credibili tali proposte si profuse in una serie di complimenti verso Pompeo e l’oligarchia dominante di cui apprezzava, disse, l’equilibrio , la sollecitudine per la concordia sociale e la lungimiranza.
La risposta giunse in tre giorni, il tempo di una cavalcata a spron battuto dei due plenipotenziari, ed era entusiasticamente positiva. Pompeo salutava , con simpatia fraterna, l’ex-suocero e commilitone Gaio , che invitava a rientrare al più presto in città ove gli era stato preparato il trionfo. Le minacce, le accuse, la persecuzione contro la sua gente poteva considerarle dimenticate e archiviate. Per ragioni di pubblica sicurezza , gli chiedeva un ultimo gesto di buona volontà: prima di varcare le mura alla testa delle truppe, avrebbe dovuto deporre le armi in segno di sicura pacificazione . Cesare storse il naso , umiliato da questa inattesa richiesta, alla quale non ritenne però possibile opporsi: la sua risoluzione era ormai irrevocabile. Due giorni dopo entrò disarmato a Roma, fra due ali di folla che lo acclamavano come salvatore della pace, ringraziandolo per aver voluto evitare una ennesima guerra civile. Pompeo lo abbracciò, lo baciò, gli depose personalmente la corona d’alloro sulla testa.
Tutto, da allora, tornò alla normalità, ma quale? La Repubblica, eliminato il dissenso senza colpo ferire, ricadde saldamente nelle mani di quella classe corrotta e affarista che l’aveva portata sull’orlo dell’abisso; l’esercito, demoralizzato e privo di comandanti degni di tal nome, cessò di difendere i confini; il governo tentò in ogni modo di ammansire i barbari , che dilagavano senza controllo, immettendoli fin nei gangli vitali dello Stato, nell’illusione di conquistarli così alla causa di Roma; le pubbliche istituzioni non solamente non conobbero le riforme necessarie, ma si rinchiusero in una sterile difesa del passato, come se la capitale dell’Occidente fosse ancora la città quadrata di Romolo e Remo . La sola, vera occasione di cambiamento era svanita per la decisione di Cesare: l’Urbe correva adesso incontro al suo inevitabile destino.
Trascorsero da allora pochi anni. La Repubblica, che aveva rinunciato a trasformarsi in Impero quando la salvezza lo avrebbe richiesto, fu travolta dagli scandali, dalle discordie, dal malcostume generale, fino a quando un’orda di barbari, guidata da capi senza paura, si riversò sull’Italia attraverso il Brennero, la Venezia Giulia e le coste adriatiche, cingendo Roma d’assedio. Quest’ultima, incapace di difesa , spalancò le porte agli stranieri, che subito la elessero a loro nuova capitale. La lingua latina scomparve, sostituita da una babele di dialetti ostrogoti incomprensibili. Molti si chiesero se quel disastro avrebbe potuto essere evitato o almeno sensibilmente ritardato. Qualcuno azzardò un’ipotesi: se Cesare avesse varcato il Rubicone, forse oggi la civiltà romana esiterebbe ancora. Chi può dirlo, rispose qualcun altro , la storia non si fa con i se e con i ma!
Ed eccoci alla morale della favola. Questo racconto è ovviamente inventato, appartenendo alle vicende di qualche universo parallelo , del quale favoleggiano taluni scienziati. Le cose notoriamente si svolsero in modo opposto, ma diciamo la verità: non sembra di sentir parlare di situazioni o personaggi dei nostri giorni? Il Divo Giulio ha varcato davvero il Rubicone, o piuttosto la porta di un certo Nazareno?
Carlo Vivaldi-Forti