L’intera Amazzonia sta vivendo una stagione secca più severa rispetto allo scorso anno, dovuta in parte al riscaldamento dell’Oceano Atlantico settentrionale tropicale che allontana l’umidità dal Sud America. Se la siccità continua, la situazione potrebbe peggiorare. Questo l’avvertimento degli scienziati che, secondo i dati dell’agenzia INPE, l’istituto nazionale brasiliano per la ricerca spaziale, hanno confermato un aumento del 13% degli incendi nell’Amazzonia brasiliana nei primi nove mesi di quest’anno rispetto al 2019. Oltre 32 mila hotspot sono stati registrati dai satelliti nel solo mese di settembre, ovvero il 61% in più rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. In sostanza, si è in balia della pioggia.
Incendi che non hanno avuto precedenti nella loro distruzione: 7’600 chilometri quadrati sono stati bruciati durante il mese di ottobre 2019. E quest’anno le cose non vanno meglio.
Il satellite della NASA lanciato nel 2012 nell’ambito del progetto Global Fire Emissions Database, ha confermato che gli incendi del 2020 non solo hanno superato quelli del 2019, ma sono stati i peggiori da quando è entrato in funzione. Dati preoccupanti che minacciano il clima e aumentano il rischio di nuove malattie.
L’attenzione internazionale sulla questione è diminuita probabilmente a causa della pandemia da coronavirus, eppure il degrado della foresta pluviale amazzonica, che copre circa 8 milioni di chilometri quadrati, ha conseguenze profonde sul cambiamento climatico globale. Con un’area più grande dell’Australia, e con il più ricco sistema fluviale del mondo, la foresta amazzonica si sviluppa sul territorio di ben 9 Stati sudamericani. Immagazzina da 90 a 140 miliardi di tonnellate di CO2, e la sua continua distruzione fa perdere la sua capacità di catturare il carbonio provocando il rilascio nell’atmosfera di enormi quantità di questa sostanza con conseguenze catastrofiche per l’ambiente. Se gli incendi non verranno ridotti, l’Amazzonia si trasformerà progressivamente da uno dei più grandi serbatoi di carbonio del mondo in un “rubinetto” di carbonio, rilasciando quindi più anidride carbonica di quanta ne “sequestra”.
Un altro fattore chiave del degrado e della frammentazione della foresta pluviale amazzonica è quello dell’aumento delle malattie zoonotiche, cioè malattie infettive che possono essere trasmesse dagli animali all’uomo.
L’anno scorso, gli incendi avevano catturato i titoli dei giornali suscitando critiche da parte di molti leader mondiali sul fatto che il Brasile non stesse facendo abbastanza per proteggere la foresta pluviale. Questa settimana il candidato presidenziale statunitense Joe Biden, ha chiesto uno sforzo mondiale per offrire 20 miliardi di dollari per porre fine alla deforestazione dell’Amazzonia, minacciando il Brasile di “conseguenze economiche” se non avesse smesso. Il presidente brasiliano, Jair Bolsonaro, per contro lo ha criticato definendola una “minaccia codarda” alla sovranità del Brasile e un chiaro “segno di disprezzo”.
Il leader brasiliano vuole insistere sullo sviluppo economico della regione confermando la politica anti ambientale del suo governo, attirando così la condanna degli ambientalisti, scienziati e leader mondiali che affermano che la foresta pluviale più grande del mondo deve rimanere intatta per raggiungere gli obiettivi internazionali sul cambiamento climatico