Il 22 gennaio scorso, contemporanemente all’apertura del Forum Di Davos, è uscito il rapporto Oxfam, sulla diseguaglianza globale in tema di ricchezza. L’Oxford Committee for Famine Relief (Oxfam), nasce in Inghilterra nel 1942 e riunisce le Ong che che studiano e si impegnano, per la ridurre la povertà nel mondo.
I dati sono già noti. Il rapporto, su fonti Forbes e Credit Suisse, ci dice che l’1% più ricco del pianeta possiede il 47,2% della ricchezza aggregata netta totale e che 26 super miliardari, possiedono una ricchezza equivalente allo 0,4% della torta, pari a quella della metà più povera del pianeta. L’aumento di ricchezza dei Paesi poveri, sembra invece rallentare. Lo studio, si sofferma anche sull’imposizione fiscale a carico dei percettori di redditi più alti, che è diminuita nell’ultimo decennio.
Il rapporto cita fonti autorevoli. L’impressione però è che sia solo dal sapore politico e non dica tutta la verità. Vengono evidenziati i contrasti: l’1% del patrimonio di Jeff Bezos (112 miliardi di dollari), corrisponde al budget sanitario dell’Etiopia, ma non viene spiegato dove sia concentrata questa ricchezza a livello globale e come sia stata prodotta. Soprattutto, lo studio fa credere che questa ricchezza esclusiva, sia cresciuta spropositatamente solo a causa dell’avidità capitalistica e dell’ortodossia neo-liberista, che agevola la riduzione delle aliquote fiscali sui patrimoni e i redditi più alti.
Il fatto che la ricchezza continui a concentrarsi nelle mani di pochi, non è una notizia. Certo, queste percentuali, fanno alzare le palpebre. Ma se guardiamo indietro nella storia, la situazione non era dissimile , anzi, peggiore. In un contesto simile al nostro, in epoca vittoriana, nel florido impero coloniale inglese, la città di Londra, oggi influente centro finanziario, non conosceva ancora un sistema fognario e la mortalità infantile era alle stelle. La rapida industrializzazione aveva si, creato posti di lavoro, ma aveva anche indotto un calo dei salari per via della massiccia immigrazione irlandese. Le diseguaglianze sociali erano evidenti. L’aristocrazia manteneva i suoi privilegi, la borghesia industriale e commerciale si arricchiva e gli operai vivevano al limite della sussistenza. Il resto del mondo non industrializzato poi, era fuori dalle statistiche e sicuramente, sotto quella che consideriamo, oggi, la soglia di povertà. Insomma, nulla di nuovo sotto il sole.
A parte questo flashback, sarebbe quindi interessante, fuori dai luoghi comuni, sapere dove sia stata prodotta questa richezza e come. Il Billionaires’ Report presentato da Ubs e PricewaterhouseCoopers nel 2018, rivela effettivamente che nel 2017 la ricchezza dei miliardari del mondo sia aumentata del 19%, l’incremento più alto mai registrato, facendo toccare la cifra di 8900 miliardi di dollari.
L’incremento maggiore di ricchezza dei miliardari si è avuto però in Asia (+32%), contro il 12% degli Usa e il 4% dell’Europa. La Cina produce due nuovi “Paperoni” ogni settimana. Per il secondo anno, il numero dei miliardari asiatici (814), ha superato quelli nord americani (631). Quelli cinesi sono passati da 16 (nel 2006) a 475 (nel 2017). Il loro patrimonio complessivo ammonta a 1112 miliardi di dollari, pari a un quinto della ricchezza globale. Tanto per citarne uno, Jack Ma, patron di Alibaba, ha un patrimonio di 42 miliardi, contro quello di Steve Jobs, che ammontava a soli 16,7. Certo, gli Stati uniti continuano ad avere il podio della maggior consistenza di ricchezza (5142 miliardi), ma in Asia, li stanno raggiungendo al galoppo. Questa immensa produzione di benessere, ha un minimo comun denominatore, l’Information Technology. La rivoluzione tecnologica in atto, assieme a quella della robotica, è pari a quella dell’invenzione della stampa. Una “quarta rivoluzione industriale” che sta cambiando le nostre vite, connettendo il mondo e mandando al macero, archivi e cavi. Se non ci rendiamo conto di questi numeri e del fatturato che c’è dietro a queste aziende, vedremo questi dati, come dei marziani. Degli attuali miliardari, il 70% è legato all’industria tecnologica e Shenzhen compete quasi, agli stessi livelli della Silicon Valley.
Un altro punto è la tassazione. Il rapporto dichiara che sia diminuita nei confronti dei super ricchi e delle corporations. Vero, ma solo in parte. Lo si è fatto soprattutto nei confronti delle imprese e in alcuni Paesi. L’alternativa però, sarebbero stati gli attuali 250 “Paradisi Fiscali”, che gestiscono globalmente, un giro d’affari di 1800 miliardi di dollari e che non attendono altro, che l’arrivo di nuovi capitali.
L’ultimo fatto che il rapporto omette di dire è che malgrado questa concentrazione la ricchezza globale è aumentata. Che i vaccini hanno fatto crollare la mortalità infantile e che la così odiata globalizzazione, ha dato la possibilità a centinaia di milioni di persone, soprattutto nei Paesi poveri, di vivere una vita migliore. Molto deve essere ancora fatto, ma la scolarizzazione e l’accesso ai servizi sanitari sono in continuo aumento.
E’ vero che la globalizzazione e il suo inevitabile processo di veloce ammodernamento, ha creato parallelamente, maggiori disagi nel mondo industrializzato, colpendo il ceto medio, i commercianti, gli imprenditori e gli impiegati del manifatturiero. Ma la soluzione, non è la caccia alle streghe nei confronti dei super ricchi.
Nell’epoca in cui viviamo, dove i capitali si spostano da una parte all’altra del pianeta in meno di un minuto, gridare all’ ipertassazione è come impaurire uno stormo di uccelli nelle fronde. Forse, la soluzione potrebbe essere quella di favorire si, una tassazione equa, ma in modo che i capitali vengano in parte reinvestiti nel Paese in cui sono prodotti. Poiché ricchezza, produce altra ricchezza.
La soluzione per redistribuirla, potrebbe poi essere, quella di renderla etica, più umana, facendo in modo che le banche, le aziende e le grandi rendite, contribuiscano, tramite finanziamenti, all’iniziativa privata, impenditoriale e sociale. Forse, dovrebbe esistere una società più etica, oltre che uno Stato etico.
Friedrich Magnani