Dopo Euripide, il mito di Fedra e di Ippolito fu tragediato da Seneca, Racine e D’Annunzio, i quali, però, la titolarono Fedra, ovvero eternando la colpevole. Euripide, invece, oltre a tragediarne il mito per primo, lo titolò a Ippolito.
Poiché Fedra, più del tabù dell’incesto, (che, in realtà, tale, non è), vibra per il tabù della differenza d’età che per è un peso per la donna, ma non per l’uomo. O, meglio, anche per l’uomo lo è e, infondo, è giusto così. Fedra, dunque, non s’innamora solo del figliastro, ma di un uomo più giovane di lei. Ed è questo il peccato, tremendo, che la porta al suicidio e alla crudele calunnia di stupro al giovane che l’ha rifiutata.
Povero Ippolito, senz’altra colpa di quella d’essere miscredente nell’amore. La mirabile opera di Euripide offre diversi piani di lettura poiché, come d’altronde scrisse Calvino, un classico è un libro che non ha mai finito di dire quello che ha da dire.
Così la vicenda di Ippolito: un ragazzo che venera solo la dea Artemide (e non tutti gli dei); un ragazzo devoto solo allo sport (che se ne infischia dell’amore e del sesso); un ragazzo che si vede una nutrice venirgli incontro e dirgli “la mia padrona è innamorata di te”; un ragazzo che perciò rifiuta e che se ne esce con “mi turerei le orecchie piuttosto di sentire robe del genere!”; un ragazzo che, infine, viene calunniato dalla rifiutata (che potrebbe essere sua madre) di…stupro! Lui, casto, puro che dell’amore se ne infischia, calunniato di essere uno stupratore… e suo padre, Teseo (che ha abbandonato Arianna sull’isola di Nasso, ha spezzato il cuore del padre Egeo perché si è dimenticato di issare le vele benauguranti bianche al posto delle funeree nere, ha dimenticato Arianna sposando Ippolita, da cui ha avuto appunto il povero Ippolito) che crede alla calunnia, esilia e maledice il figlio (proprio con l’ultimo dei tre desideri concessigli un tempo da Poseidone, il quale fa scaturire dal mare un toro, che spaventa i cavalli della quadriga di Ippolito) e fa sì che muoia dilaniato sulla spiaggia. Quando, convinto dal messaggero, si accorge che Ippolito era innocente e Fedra l’ha calunniato, impiccandosi, è troppo tardi: non ha più desideri, può solo contemplarlo morire, mentre la dea Artemide soggiunge, portando il suo devoto con sé.
Tutta questa terribile vicenda può essere la punizione di un empio (Ippolito non adora tutti gli dei, solo Artemide), curiosamente la stessa fine che sarebbe toccata all’autore della tragedia stessa, Euripide, ritenuto, dai più ateo, secondo la leggenda dilaniato dai cani (la punizione degli empi); la punizione, da parte di Afrodite, di colui che sdegna l’amore “Ah e così mi sdegni” dice la dea dell’amore “allora farò sì che la tua matrigna s’innamori di te e ti calunni!”; oppure la catastrofe che un rapporto anagraficamente errato genera. Fedra per Ippolito è troppo vecchia, inoltre, è la moglie di suo padre! A un lettore moralista verrebbe da chiederle: “ma ti sei vista? Sarai anche bella, sarai anche una regina ma Ippolito può essere tuo figlio.” Naturale che Ippolito si sdegni. Così come, curiosamente, si sdegnarono gli spettatori ateniesi alla prima versione dell’Ippolito: s’intitolava l’Ippolito velato, ovvero colui che si velava per la vergogna di ciò che aveva sentito. Gli ateniesi la ritennero troppo scabrosa e Euripide dovette rimaneggiarla. Così quella che leggiamo ora è l’Ippolito coronato, che porta una corona di fiori alla dea Artemide (e non ad Afrodite).
Chantal Fantuzzi