Martino Mora

Leggo sul Corriere, al bar, che a Bovisio Masciago una bionda trentenne di nome Stella avrebbe ammazzato il convivente con un coltello da cucina.

L’avrebbe fatto secco, la bionda, con un fendente solo, diretto al cuore.

Trovo nell’articolo e poi su internet il termine veterocomunista “compagno” (al posto di convivente, concubino) ripetuto decine di volte.

Statua del galata morente

Nemmeno una volta, invece, il termine “maschicidio”. Eppure se esiste il neologismo, linguisticamente orrendo, “femminicidio”, dovrebbe pur esserci il corrispondente “maschicidio” laddove la vittima sia un maschio.

Perché non c’è?

Suvvia, lo sappiamo benissimo perché non c’è. Il maschio non deve mai essere identificato come vittima in quanto maschio, nemmeno quando lo è.

Così come il termine “compagno”, un tempo utilizzato in senso politico, è stato scelto in nome del “vietato vietare” per normalizzare simbolicamente le libere relazioni extramatrimoniali, un tempo guardate con diffidenza e sospetto; così come il termine fluido “genere” è usato per sostituire quello di “sesso”, di cui non è evidentemente sinonimo; allo stesso modo il termine “femminicidio” deve invece vittimizzare simbolicamente la donna come creatura oppressa. Non è assolutamente previsto, né ammesso il corrispettivo maschile.

Se il XX secolo era il secolo delle ideologie (al plurale) il XXI è quello dell’ideologia unica.

Di tutte la più cialtrona.