di Tito Tettamanti

Tre sono le colonne portanti della struttura di qualsiasi società per il proprio funzionamento,
dalla più piccola associazione alle forme statuali più importanti.

Parliamo delle regole, dell’autorità e del sistema giudiziario. Le Regole fanno chiarezza per i
comportamenti, distinguono il lecito dall’illecito, sbarrano la via alla forza e alla prepotenza.
L’Autorità deve sorvegliare ed assicurare l’applicazione delle regole facilitando un’armoniosa
convivenza. La Giustizia che ha il delicatissimo compito di dirimere contenziosi che nascono
dall’applicazione e dalla interpretazione delle regole (le leggi) tanto nei rapporti tra i soggetti
quanto in quelli tra loro e l’Autorità.

Ovviamente parliamo in termini di teoria, in quanto regole, autorità e giustizia si esprimono con
accenti diversi o addirittura contraddittori in Stati autocratici o dittatoriali e lo sono oggi
purtroppo la maggioranza dei 193 Stati membri dell’ONU.

Constatiamo che anche nel mondo democratico le frizioni tra l’autorità (governi, parlamenti,
partiti politici, poteri burocratici) e i rappresentanti del mondo giudiziario da qualche tempo
superano il normale utile scontro dialettico per assumere forme di contrasto diretto.

Da sempre vi è una comprensibile fisiologica conflittualità, le leggi, sempre più numerose e
talvolta desuete, si scontrano con realtà sociali di un mondo che evolve. Comprensibile
l’inclinazione di giudici di adeguare, con l’applicazione della giurisprudenza, le norme alla realtà
in movimento. Una burocrazia sempre più invasiva e tendente a tutto regolare rende il rapporto
ancor più faticoso. Comprensibile pure, ma pericoloso, quando il giudice non resiste alla
tentazione di apportare modifiche che la politica, o perlomeno l’espressione della maggioranza
al governo, per qualunque motivo, non condivide e il giudice tenta di sostituirsi al legislatore.
Anche perché spesso persino tra i giudici non vi è unanimità. In una recente inchiesta svizzera
si sono sottoposti casi fittizi a giudici diversi e si è avuta un’impressionante diversità nella
formulazione delle sentenze. Preferibili, pertanto, gli errori di molti cittadini votanti, a quelli di
pochi giudici.Conseguenze negative hanno pure atteggiamenti di magistrati che aspirano ad essere parte
diretta nello scontro politico.

In Italia Berlusconi è stato oggetto di uno straordinario numero di procedimenti giudiziari,
sicuramente numerose decine. Pur essendo un grande imprenditore, non è stato uno stinco di
santo e ha fatto gli affari suoi, ma l’accumulo di procedure, non certo tutte di assoluta necessità,
e le diverse sentenze di assoluzione o di archiviazione svalutano i procedimenti di maggiore
importanza e permettono all’imputato ed ai suoi sostenitori di parlare di persecuzione
giudiziaria. La misura e l’opportunità che debbono reggere l’attività del giudice non permettono
il protagonismo.

Alain Finkielkraut, accademico di Francia, ha criticato la decisione frettolosa ed inutilmente
anticipatoria con la quale i giudici hanno dichiarato la signora Le Pen ineleggibile per eliminarla
dalla prossima competizione per la presidenza della Francia. Milioni di elettori, non pochi
giudici, debbono scegliere il Presidente del Paese.

In Germania vi è chi vorrebbe addirittura che un ristretto numero di giudici dichiari un partito che
ha milioni di aderenti ineleggibile, influenzando i possibili risultati elettorali.
Vi è inoltre un fiorire di tribunali internazionali il cui vero scopo più che l’amministrazione della
giustizia è l’affermazione di certi postulati e ideologie. Che il Tribunale penale internazionale
abbia emesso un mandato di cattura per Putin, che nel contempo viene omaggiato da Capi di
Stato di diversi importanti Paesi e dal Segretario Generale dell’ONU, fa sorgere qualche
interrogativo. La giustizia deve stare attenta a non esondare su terreni scivolosi. La Corte
europea per i diritti dell’uomo è pure un altro di questi tribunali. Nascono con l’intento di
valorizzare e promuovere certe tesi più che dirimere contrasti.

In considerazione dell’orientamento i giudici nominati spesso non vengono dalla carriera
giudiziaria ma hanno militato precedentemente in ONG o altre organizzazioni che si battono a
sostegno di convinzioni ideologiche. Non sono dei giudici, hanno maggiormente il pur
rispettabile profilo dell’attivista, ciò che non è certo garanzia di imparzialità.

Non per nulla ben nove governi europei hanno recentemente scritto a questo Tribunale
lamentandosi e protestando per l’ingerenza dei giudici. Il fatto che il vero attore di una recente
causa e relativa richiesta di condanna della Svizzera, Paese accusato ridicolmente (il fanatismo
spesso esonda nel ridicolo) perché metterebbe in pericolo la vita di attempate ma vivaci
signore, sia Greenpeace (che, lo ripeto sempre, in un caso personale ho fatto condannare
penalmente), la quale gestisce e finanzia il tutto (si parla di un costo non lontano dal milione)
avrebbe dovuto mettere in sospetto i giudici addirittura per quanto riguarda la legittimazione
attiva. Delicata posizione di giudici che possono aver condiviso in passato, magari attivamente,
le campagne di Greenpeace.

La politica consiste in un costante scontro di interessi, che talvolta si tenda a barare lo
sappiamo, ma se la giustizia pretende un ruolo che non le compete facendo essa stessa
politica di parte perde i suoi attributi più importanti: autorevolezza e credibilità.