Prof. Aldo Rocco Vitale (Universitá Europea di Roma)

Prof. Daniele Trabucco (SSML/Istituto di grado universitario “san Domenico” di Roma).

L’approvazione da parte del Senato della Repubblica del disegno di legge n. 1433, volto a introdurre nel Codice penale italiano il nuovo reato autonomo di femminicidio, configura l’ennesima manifestazione di un diritto penale a funzione prevalentemente simbolica, in cui la normazione non si misura più con l’esigenza di sanzionare condotte effettivamente prive di copertura giuridica, bensì con la pretesa ideologica di costruire paradigmi valoriali attraverso l’imposizione legislativa. Il testo, che ha ricevuto voto unanime a Palazzo Madama e ora è all’esame della Camera dei Deputati, istituisce l’articolo 577-bis del Codice penale, prevedendo la pena dell’ergastolo per chi cagiona la morte di una donna «in quanto donna», ossia per ragioni connesse a discriminazione, dominio, possesso, rifiuto di instaurare o proseguire un rapporto affettivo, o come forma di limitazione della libertà individuale della vittima.

A ciò si aggiungono disposizioni di natura aggravante per reati già coperti dal cosiddetto “Codice rosso” (stalking, maltrattamenti, violenza sessuale, revenge porn), misure procedurali rafforzate, obblighi di informazione, confisca obbligatoria dei beni, e la previsione di un periodo minimo di osservazione scientifica della personalità del condannato ai fini dell’accesso a benefici penitenziari. Il disegno di legge si inserisce in una stagione normativa già ipertrofica in materia, che ha visto susseguirsi, dalla legge ordinaria dello Stato n. 119/2013 alla legge formale n. 69/2019, fino alla più recente legge n. 168/2023, una moltiplicazione di strumenti repressivi e cautelari, spesso sovrapposti o ridondanti. Sotto il profilo costituzionale, l’impianto del provvedimento si rivela problematico per una pluralità di ragioni.

Anzitutto, l’introduzione di un titolo autonomo di reato fondato sulla qualità soggettiva della vittima, in questo caso il suo essere “donna”, mina alla radice il principio di eguaglianza formale sancito dall’articolo 3, comma 1, della Costituzione. In un ordinamento che si fonda sulla pari dignità di tutti gli esseri umani e sul divieto di discriminazioni fondate sul sesso, la valorizzazione penale differenziata della medesima condotta omicidiaria a seconda della vittima finisce per reintrodurre surrettiziamente un criterio di specialità discriminatoria. La norma, sotto questo aspetto, appare in rotta di collisione con la concezione classica dello Stato di diritto, in cui la generalità della legge penale, e quindi la sua eguaglianza formale nella commisurazione delle pene, è garanzia di giustizia e non ostacolo alla tutela dei deboli. Il diritto penale non può e non deve farsi veicolo di parzialità assiologiche fondate su identità categoriali, pena la sua trasformazione in strumento di lotta politica travestito da giustizia. In secondo luogo, la vaghezza estrema delle formule utilizzate dal nuovo art. 577-bis, quali “atti di dominio”, “odio di genere”, “controllo”, “prevaricazione”, “possesso”, tradisce un’inaccettabile indeterminatezza della fattispecie incriminatrice, in aperta violazione del principio di legalità sostanziale (art. 25, comma 2, Cost.).

L’assenza di criteri normativi chiari e verificabili nella ricostruzione dell’elemento soggettivo del reato affida alla discrezionalità interpretativa del giudice un compito eccedente le garanzie di tipicità e determinatezza, consentendo una potenziale selettività ideologica nella repressione. La norma non sanziona più, infatti, comportamenti oggettivamente definiti, bensì stati emotivi o simbolici dell’agente, ricostruiti ex post sulla base della narrativa vittimaria.Non meno rilevante è il vulnus che tale disegno reca al principio di proporzionalità delle pene (art. 27, comma 3, Cost.). L’introduzione della pena perpetua obbligatoria per il nuovo reato, a fronte di condotte già punite con l’ergastolo in virtù delle aggravanti previste dagli artt. 576 e 577 c.p., si configura non solo come inutile duplicazione normativa, ma come sanzione potenzialmente irragionevole, priva di margini di personalizzazione e suscettibile di contrastare con il fine rieducativo della pena. La pretesa di rafforzare la deterrenza mediante automatismi sanzionatori contrasta con la progressiva affermazione in giurisprudenza costituzionale della necessaria individualizzazione del trattamento penale (si pensi alle sentenze n. 22/2022 e n. 149/2018), in coerenza con una visione personalista del diritto punitivo. L’uomo condannato non è solo autore di un delitto, ma è persona titolare di una dignità ontologica non negoziabile, che la Costituzione, in continuità con l’antropologia giusnaturalista classica, tutela come limite interno all’azione punitiva dello Stato. A un livello filosofico più profondo, il disegno di legge riflette la deriva contemporanea verso un diritto penale dell’emozione, fondato non più sulla razionalità della norma, quanto sulla reattività simbolica e sul bisogno politico-mediatico di esibire risposte immediate a fenomeni tragici. Il femminicidio, nella sua drammaticità, è elevato a categoria metafisica, a mito fondante di un nuovo ordine penale sessuato, in cui l’eguaglianza sostanziale è rovesciata in differenza giuridica e la giustizia si fa partigiana. Il legislatore abdica così alla sua funzione ordinatrice, per farsi portavoce di pulsioni culturali irriflesse, riducendo il diritto penale a strumento di narrazione ideologica. Non è in discussione l’esigenza di contrastare con fermezza e determinazione ogni forma di violenza, soprattutto quando essa si radica in strutture relazionali disfunzionali o in culture di sopraffazione.

Tuttavia, un ordinamento maturo deve distinguere tra protezione delle vittime e produzione di diritto penale diseguale. Il diritto non si costruisce sull’onda del pathos, ma nella fedeltà alla razionalità dell’ordine giuridico, che è ordine di giustizia, non di vendetta. La Costituzione repubblicana, nonostante le sue ambiguità ermeneutiche, conserva in sé una vocazione universalistica e razionale che questo disegno di legge tradisce.

In definitiva, l’istituzione di un reato autonomo di femminicidio rappresenta non solo una mossa legislativa superflua e priva di reale efficacia aggiuntiva rispetto al già vasto apparato normativo esistente, ma anche un atto profondamente problematico sul piano della coerenza costituzionale, della razionalità giuridica e della concezione stessa del diritto. In nome di una legittima istanza di protezione si rischia di abbandonare i fondamenti stessi dell’ordinamento giuridico, trasformando il diritto penale in un’arma ideologica e l’eguaglianza in privilegio rovesciato.