di Historicus

Cinquant’anni fa, durante una delle sue memorabili lezioni, il prof. Karl Brunner affermò sarcasticamente:

“Con i loro esperimenti di politica economica, i governi di questo mondo spesso lavorano molto più a beneficio della ricerca scientifica che per il benessere delle loro popolazioni.”

Purtroppo, questo rimane vero ancora oggi e, viste le misure disastrose che molti governi (ad esempio, Germania, Francia, Spagna, Regno Unito e molti altri) hanno adottato e continuano ad adottare, e che alcune organizzazioni internazionali (ad esempio, ONU, UE e OMS) suggeriscono, rimane ancora più vero oggi.

Dal canto suo, il prof. Milton Friedman era solito affermare che per ottenere prove più convincenti, bisognava studiare casi estremi.

Seguendo queste idee esamineremo, in questa nota, la performance economica dell’Unione Sovietica durante i primi 10 anni dopo la Rivoluzione d’Ottobre del 1917.

Come quadro teorico, utilizzeremo l’analisi condensata nella Curva di Rahn (esposta in una Nota anteriore), ma in una versione modificata. Nelle economie con un’elevata quota di imprese statali o un controllo quasi assoluto sull’economia (ad esempio, Venezuela, Cuba, Corea del Nord, ex Unione Sovietica, ecc.), misurare le dimensioni dello Stato esclusivamente in termini di spesa pubblica/PIL può essere fuorviante, poiché lo Stato controlla ampie porzioni di risorse senza doverle riflettere come spese di bilancio. In tali casi, una versione della “Curva di Rahn basata sul controllo statale delle risorse” è più appropriata per analizzare l’effetto delle dimensioni dello Stato sulla crescita ed il benessere economici. Pertanto, sulla base della versione alternativa della Curva di Rahn, riprodotta nella Figura 1, le transizioni estreme che analizzeremo in questa (ed alcune Note successive), possono essere interpretate come il passaggio da un punto come A a uno come B o viceversa.

L’idea che questa Figura trasmette, è che vi è una dimensione ottimale per l’attività dello Stato. Ma, superato questo livello, più lo Stato aumenta ed irrigidisce il suo controllo sulle risorse dell’economia più genera barriere ed impedimenti all’attività economica, riducendo sempre di più il benessere della popolazione.

Le serie storiche per la nostra analisi sono quelle del PIL reale pro capite a potere d’acquisto comparabile e prezzi costanti, contenute nell’importante database delle serie storiche del Maddison Project (a prezzi del 2011), portato avanti dall’Università di Groningen (Paesi Bassi) [sito: https://www.rug.nl/ggdc/historicaldevelopment/maddison/].

Dopo queste preparazioni, possiamo iniziare a studiare la transizione dell’economia russa verso un’economia comunista iniziata sotto Lenin (1917-1928). Questa transizione è chiaramente divisa in due fasi:

a. 1917-1921: “Comunismo di guerra”, i primi quattro anni dopo la Rivoluzione d’Ottobre

Questo periodo coincide con la Guerra Civile Russa (1918-1921), in cui i bolscevichi tentarono di stabilire un’economia socialista centralizzata per sostenere lo sforzo bellico. Le misure principali furono:

•  Decreti iniziali (1917-1918):

–  Decreto sulla terra: abolizione della proprietà privata della terra, ridistribuzione ai contadini;

–  Decreto di pace: ritiro dalla Prima Guerra Mondiale (Trattato di Brest-Litovsk, 1918);

–  Nazionalizzazione di banche, industria pesante, trasporti e commercio estero.

•  Comunismo di guerra (1918-1921):

–  Nazionalizzazione totale dell’industria (1918).

–  Divieto del commercio privato: lo Stato monopolizza la distribuzione e i prezzi.

–  Requisizioni forzate di grano (prodrazvyorstka): i contadini sono costretti a consegnare le eccedenze agricole allo Stato.

–  Rigoroso razionamento alimentare nelle città.

–  Lavoro obbligatorio: militarizzazione del lavoro nelle fabbriche e nelle campagne.

–  Abolizione in pratica del denaro: l’economia si basava sul baratto e sulla distribuzione statale.

•  E i risultati?

–  Crollo della produzione agricola e industriale;

–  Carestia del 1921-1922: durante questa carestia, morirono circa 5 milioni di persone, principalmente nella regione del Volga, in Ucraina e nella Russia meridionale.

–  Rivolte di contadini e operai (ad esempio, la rivolta di Kronstadt del 1921).

–  Il comunismo di guerra portò l’economia sull’orlo del collasso.

a. 1921–1928: Nuova Politica Economica (NEP), una rettifica tattica di fronte al disastro del comunismo di guerra

Lenin si rese conto che era impossibile sostenere il comunismo di guerra in tempo di pace e lanciò una “ritirata tattica” verso un’economia mista. Le misure principali furono:

•  Fine delle requisizioni di grano, sostituite da una tassa in natura: i contadini potevano vendere liberamente le eccedenze dopo aver pagato la loro quota allo Stato.

•  Ricomparsa del commercio privato: mercati legali, piccoli commercianti.

•  Denazionalizzazione parziale: Le piccole e medie imprese tornarono in mano ai privati.

•  La grande industria, il sistema bancario, i trasporti e il commercio estero furono posti sotto il controllo statale (“comandanti dell’economia”).

•  Reintroduzione del denaro come mezzo di scambio.

•  Apertura limitata al capitale straniero attraverso concessioni.

•  I risultati furono quelli previsti:

–  Rapida ripresa agricola e lieve miglioramento industriale.

–  Emergono nuove disuguaglianze sociali: contadini più ricchi (kulak) e mercanti.

Lenin giustificò la NEP come una battuta d’arresto temporanea per consolidare il potere sovietico e “dare una tregua ai contadini”.

Esaminiamo ora i dati del PIL pro capite reale (tratti dalla banca dati del Maddison Project), riprodotti nella Figura 2. A titolo di confronto, includiamo anche la serie per l’Europa occidentale rilevante, calcolata come media semplice delle serie per Germania, Danimarca, Finlandia, Norvegia e Svezia.

Figura 2

Osserviamo che:

•  Il PIL pro capite dell’Europa occidentale diminuì del 11,5% durante la Prima Guerra Mondiale (1914-1918) e crebbe del 42,6% nei primi 10 anni dopo la guerra (1918-1928).

•  D’altro canto, il PIL pro capite della Russia iniziò a diminuire prima della Rivoluzione bolscevica: tra il 1915 e il 1917, si ridusse del 22%. Ciò fu dovuto a fattori strutturali legati alla Prima Guerra Mondiale, non alle politiche di Lenin (che non esistevano ancora). Poi, durante il periodo del “Comunismo di Guerra” (1917-1921), il PIL pro capite diminuì di un altro 51,5%, mentre durante il periodo della NEP (1921-1928), il PIL pro capite aumentò del 160,6% in soli 7 anni!

Si conferma come la nazionalizzazione (quasi) totale dell’economia russa durante il Comunismo di Guerra distrusse buona parte della produzione e con essa il PIL pro capite ed il benessere della popolazione.

Ma il risultato – per alcuni – più sorprendente è la rapida e forte ripresa economica generata dalla parziale liberalizzazione durante la NEP. Chiaramente, l’andamento dell’economia sovietica, che – riferendosi ancora alla Figura 1 – consistette in una transizione da A a B durante gli anni del “Comunismo di Guerra” (1917-1921) e poi in una “ritirata tattica” da B ad A durante gli anni della NEP (1921-1928), conferma pienamente l’analisi economica.

Questo esperimento – se così lo si vuole chiamare – dimostra che quando il peso e i controlli dello Stato vengono ridotti e viene concessa anche solo una moderata libertà di decisione e d’azione al settore privato, si creano immediatamente opportunità e iniziative, e si consolida un netto miglioramento delle prestazioni economiche e del benessere della popolazione.