Tra mito, arte e diplomazia imperiale: il gioiello che unisce Bisanzio e l’Ungheria medievale
Al Museo Nazionale Ungherese di Budapest brilla uno dei manufatti più enigmatici e discussi del Medioevo bizantino: la Corona di Monomaco, un insieme di raffinate lastre d’oro smaltate che raccontano, in un linguaggio di luce e simboli, la grandezza dell’Impero d’Oriente e i suoi legami con l’Europa centrale.
Realizzata probabilmente a Costantinopoli intorno al 1042, la corona è composta da sette placche d’oro decorate a smalto cloisonné. Le figure, di vibrante eleganza, raffigurano l’imperatore Costantino IX Monomaco, la moglie Zoe Porfirogenita, la sorella Teodora, due danzatrici e due personificazioni allegoriche delle virtù: la Sincerità e l’Umiltà. In esse, la spiritualità bizantina si intreccia con un gusto quasi teatrale, dove la sacralità dell’imperatore si accompagna alla grazia del movimento e alla potenza simbolica dei colori.

Un ritrovamento misterioso in terra ungherese
Il destino della corona si intreccia con la storia d’Europa in modo rocambolesco. Fu infatti rinvenuta nel 1860 da un contadino nei pressi di Ivanka pri Nitre, in Slovacchia (allora parte del Regno d’Ungheria). Il tesoro, passato attraverso le mani di nobili e mercanti, venne acquistato tra il 1861 e il 1870 dal Museo Nazionale Ungherese, dove è tuttora conservato.
L’origine di questo straordinario oggetto ha dato luogo a ipotesi contrastanti. Molti studiosi ritengono che non si trattasse di una corona “regale” nel senso stretto, ma di un dono imperiale, forse destinato alla corte ungherese. È possibile che fosse inviata da Costantino IX Monomaco al re Andrea I d’Ungheria o alla sua consorte Anastasia di Kiev, intorno al 1046, in segno di alleanza dinastica e diplomatica.
Secondo la tradizione, Andrea avrebbe ricevuto questa corona dopo la perdita della “corona originale” ungherese, catturata da Enrico III e inviata a Roma. Così, la Corona di Monomaco sarebbe divenuta il simbolo del potere reale ungherese, almeno fino alla successiva incoronazione di Salomone nel 1057.

Tra arte sacra e potere terreno
Le placche della corona, pur di fattura irregolare e dai colori ormai attenuati, rivelano un linguaggio simbolico raffinato.
Costantino IX è rappresentato con i segni della sua sovranità: il labarum (stendardo sacro) nella destra e l’akakia — una piccola borsa contenente polvere, simbolo della caducità del potere terreno — nella sinistra. Ai lati, Zoe e Teodora, “le Pie Auguste”, lo indicano come il centro del mondo e della grazia divina.
Il fondo delle lastre è animato da viti, fiori e uccelli, allusione al Paradiso e alla vita eterna. Le figure allegoriche di Sincerità e Umiltà introducono un tono morale e spirituale: la prima indica la bocca, segno di verità; la seconda incrocia le braccia sul petto, in gesto di devozione.
Accanto a queste, due danzatrici velate — un’iconografia rarissima nel cristianesimo bizantino — sembrano evocare un rito mistico o processionale, forse parte di una cerimonia imperiale.
Autenticità o falso d’autore?
Nonostante la sua fama, la Corona di Monomaco è anche oggetto di controversie accademiche.
Nel 1994, lo storico greco Nicolas Oikonomidès ipotizzò che si trattasse di un falso ottocentesco, realizzato in un laboratorio veneziano: troppo rozze, a suo giudizio, le iscrizioni e la fattura per un’opera imperiale. Tuttavia, ricerche successive — in particolare quelle di Etele Kiss del Museo Nazionale Ungherese — hanno confutato l’ipotesi, sottolineando la coerenza stilistica e simbolica delle placche con l’arte costantinopolitana dell’XI secolo.
Anche la studiosa Magda von Bárány-Oberschall, già nel 1937, aveva proposto che la corona fosse una creazione autentica dell’XI secolo, forse destinata non all’imperatore stesso, ma a una consorte bizantina o a un dono diplomatico.

Un ponte tra Bisanzio e l’Occidente
Che fosse un dono politico, una reliquia imperiale o un oggetto cerimoniale, la Corona di Monomaco resta un capolavoro assoluto dell’oreficeria bizantina.
È un testimone silenzioso del momento in cui Bisanzio cercava di estendere la propria influenza in Europa centrale, intrecciando alleanze attraverso l’arte e il prestigio imperiale.
Oggi, il suo splendore dorato continua ad affascinare studiosi e visitatori, ricordando come l’oro bizantino non fosse solo un segno di potere, ma una visione teologica del mondo, in cui il sovrano rifletteva la luce divina sulla terra.