(Prosa poetica in stile arcaico-moderno)

La bocca sollevò dal fiero pasto quell’anima mesta e feroce, e del suo gesto parve tremare l’aere tutto.
Tacque un poco, ché il ricordo gli serrava la gola più che il gelo dell’Antenora.
Poi, levando gli occhi torbidi e infossati, guardò me — come chi dal fondo del dolore attende ancora udienza di pietà.

«Tu vuoi saper,» disse, «chi sono e qual cagione mi spinse a tanta rabbia. Ma sappi prima che non fu fame sola, bensì il rimorso e la disperanza che m’arse l’anima e la carne.»

E cominciò il racconto del tradimento e della torre:
come l’arcivescovo Ruggieri, sotto manto di pace, lo fece prendere con li suoi figli e chiudere nella Muda di Pisa.
Là dentro, le mura tacquero ogni giorno di più; le porte, serrate con ferro e con tradimento, non si riaprirono mai.
La fame divenne consigliera di follia; i figli, specchio del suo martirio.
Uno dopo l’altro caddero, e il padre, cieco di dolore, non sapeva più se piangere o morire.

«Ahimè,» disse, «quando li vidi spenti, già ciechi e freddi, cercai con le mani se in me restasse vita per seguirli, e non trovandone, piansi sì che il pianto stesso mi morse il cuore.
Poi, più che il dolore, prevalse la fame, e ciò che feci, tu il sai, e non lo dirò per vergogna.»

Così tacque, e la tenebra parve farsi più densa.
Il suo sguardo tornò al cranio del vescovo, e con atto lento e terribile vi ripose la bocca, come chi rinnova un voto eterno.
Là, nel ghiaccio che non conosce oblio, egli e il suo nemico restano avvinti: il traditore e il tradito, il carnefice e la vittima, legati in un solo destino di pena.

Io rimasi, sì che né piangere potea né parlare; ché in quel volto disfatto, pur nell’orrore, mi parve scorgere un padre, e nell’ombra del suo pianto la condanna d’ogni potere che si nutre di inganno.
Così passai oltre, ma l’anima mia rimase con lui, fra il gelo e la memoria, dove il dolore non muore, ma si fa canto eterno di colpa e pietà.