La busta arrivò senza nome, come spesso accade nelle storie che cominciano in sordina.
Era l’autunno del 2024 e sul tavolo di Fiorenzo Dadò, presidente del partito Il Centro e deputato del Gran Consiglio ticinese, comparve una missiva anonima. Dentro, poche righe e tre fotografie. Immagini strane, ambigue — ritratti di bambini in pose insolite, scattate anni prima, nel 2020. Nulla di apertamente illecito, ma abbastanza da destare inquietudine.

Dadò, uomo di partito abituato alle tempeste della politica cantonale, decise di non tacere. Portò quel plico alla Commissione Giustizia e Diritti, di cui faceva parte, sostenendo che il materiale poteva riguardare un magistrato coinvolto in un presunto caso di mobbing all’interno del Tribunale penale cantonale. Era, a suo dire, un atto di trasparenza: la denuncia di un’anomalia che meritava di essere indagata.

Poi la vicenda si complicò.

Le fotografie, si scoprì, provenivano da una conversazione privata via WhatsApp tra il magistrato Mauro Ermani e una segretaria. Non erano, secondo le perizie, di natura pedopornografica, ma l’eco mediatica fu enorme. Nel frattempo, le autorità giudiziarie cominciarono a chiedersi da dove provenisse davvero quella “missiva anonima”. E quanto anonima fosse, in realtà.

Quando Dadò dichiarò di non conoscere l’identità del mittente, molti gli credettero. Ma nel corso delle indagini, davanti agli inquirenti, avrebbe poi ammesso di sapere chi gli aveva fornito il materiale.
Fu il punto di svolta.

A fine ottobre 2025, il Ministero pubblico annunciò l’apertura di un procedimento penale per falsa testimonianza e denuncia mendace. Un colpo di scena clamoroso: il politico che aveva denunciato presunte irregolarità nel sistema giudiziario si trovava ora dall’altra parte, indagato per aver travisato la verità.

Dadò reagì come da copione istituzionale — ma con toni umani. Rinunciò all’immunità parlamentare, si autosospese dalla Commissione, e dichiarò di avere la coscienza a posto. «Non ho mentito, ho solo protetto la mia fonte», spiegò ai giornali, evocando il dovere — e il rischio — di chi porta alla luce segnalazioni delicate.

Il partito Il Centro gli restò accanto. «Fiorenzo gode della nostra fiducia», dichiararono i vertici. Ma nei corridoi del Palazzo delle Orsoline serpeggiava un interrogativo che andava oltre il suo caso personale: chi oserà ancora raccogliere una denuncia, se poi rischia di finire sotto inchiesta?

Nel frattempo, l’inchiesta prosegue.
Nessuna condanna, nessun verdetto: solo il silenzio ovattato della giustizia che scava.
La busta senza mittente resta, simbolicamente, sul tavolo — a ricordare quanto sottile sia la linea tra il dovere di denunciare e il pericolo di sbagliare nel farlo.

Nota. Il presidente del Tribunale penale Ermani si e’ dimesso e due altri giudici sono stati licenziati, alcuni mesi fa.