
Era una notte di cenere e umidità. La città giaceva come un leviatano morente, il suo respiro il mormorio delle fogne, i suoi occhi le finestre buie che scrutavano senza vedere.
Camminavo, non saprei dire perché — forse cercando rifugio, forse condanna — mentre il fumo dei lampioni serpeggiava come ectoplasma denso.
Ogni passo risuonava sulle lastre vischiose di Fleet Street come un battito di cuore alieno, e il mio respiro pareva un’invocazione rivolta al nulla.
Fu allora che la vidi di nuovo.
Xélucha.
Non apparve: emerse. Come se il buio l’avesse generata, partorita da un abisso di bruma e silenzio.
Portava un velo che non nascondeva, ma svelava. I suoi occhi — due ferite lucenti — mi trafissero come lame immerse nel ghiaccio.
Nessuna parola. Solo la lenta curvatura delle sue labbra, un sorriso che sapeva di tomba.
Mi sentii trascinare verso di lei, come l’acqua verso il vortice.
Quando le fui vicino, un freddo dolce mi attraversò il petto, e compresi che il mio cuore non batteva più per me.
«Mi hai chiamata», sussurrò, ma le sue labbra non si mossero.
Fu la mia mente a udire, o forse la mia anima, quella parte segreta che già le apparteneva.
Tesi una mano; la sua pelle era pallida come cera, e sotto la superficie non scorreva sangue ma memoria.
Un fremito — e il mondo cambiò consistenza.
La nebbia si fece più densa, come un sudario che cadeva lentamente su ogni cosa. I suoni della città — il rumore delle ruote, il grido lontano di un venditore, il passo di un ubriaco — si dissolsero, assorbiti in un silenzio che aveva peso e forma.
«Dove mi conduci?» chiesi, e la mia voce mi parve quella di un estraneo.
Lei sorrise di nuovo, e in quel gesto vidi la bellezza della fine.
«A casa,» rispose. «Dove il cuore non ricorda più, e la carne non mente.»
E la seguii.
Sotto archi anneriti dal tempo, tra muri che trasudavano muffa e peccato, finché giungemmo davanti a una porta.
Era di legno antico, e da sotto spirava un alito d’aria che sapeva di secoli.
Xélucha la toccò. La porta si aprì da sola.
Dentro, un chiarore livido, come luna intrappolata in un sepolcro.
Entrai.
Xélucha – l’ultima stanza
L’interno era un silenzio denso come il velluto di una bara.
Le pareti, tappezzate di damasco scuro, sembravano respirare — e in ogni respiro un sussurro, un pianto di tempo sepolto.
Un lume tremolava su un tavolo d’ebano: la sua fiamma si piegava come per reverenza davanti a lei.
Xélucha avanzò senza rumore, i suoi passi simili al cadere di petali morti.
«Siedi,» mormorò, e io obbedii, come un devoto davanti al proprio idolo.
La guardai, e la luce la disegnò come un’apparizione:
la pelle bianca fino all’inverosimile, le mani sottili, e quegli occhi — vasti come la notte, colmi di promesse e perdono.
Attorno a noi l’aria si fece greve, quasi viva.
Capii che eravamo fuori dal mondo, o forse troppo dentro di esso.
«Hai paura?» domandò.
«Solo di restare lontano da te,» risposi.
Ella sorrise, e quel sorriso spense ogni cosa.
Poi venne a me, lenta, con la grazia solenne di un angelo funebre.
Le sue dita sfiorarono la mia fronte, e sentii il gelo penetrarmi fino all’anima — ma era un gelo dolce, come quello dell’oblio.
«La vita è un sogno febbrile,» sussurrò. «Ora dormi. Dormi, e ricordami nel silenzio.»
Mi baciò.
Il lume si spense.
L’oscurità mi avvolse come un manto misericordioso.
Sentii il battito del mio cuore rallentare, dissolversi… poi il suo al posto del mio, un ritmo antico, profondo, che non apparteneva a un corpo ma a una presenza.
E capii.
Non era la morte che mi stringeva — era lei.
Non l’assenza, ma il compimento.
In quell’abbraccio senza calore, provai una pace che nessun respiro aveva mai portato.
Quando riaprii gli occhi, Londra era lontana.
Nessuna nebbia, nessun rumore. Solo una distesa grigia, infinita, e due figure che camminavano insieme, senza ombra né tempo.
Lei mi prese la mano.
«Vedi?» disse piano. «Nulla muore, se qualcuno lo desidera abbastanza.»
E insieme ci perdemmo nella luce pallida dell’eternità.
E in quell’istante seppi che la mia vita era finita — e solo allora cominciava davvero.