La notte tra il 18 e il 19 luglio dell’anno 64 d.C. si levò un vento da sud-ovest, caldo e costante. Alle prime ore, quando la città dormiva, un focolaio fu segnalato nella zona dei tabernae ai piedi del Circo Massimo. Le costruzioni, per lo più di legno e tela catramata, erano stipate di merci infiammabili: olio, pece, corde, granaglie secche. Bastò una scintilla.

Il fuoco si propagò lungo le vie strette che costeggiavano il circo. La disposizione irregolare delle insulae, con i piani aggettanti e le travi che quasi si toccavano da un lato all’altro della strada, creò un effetto camino: le fiamme salivano come risucchiate, alimentate dal vento e dal combustibile urbano. Non esistevano barriere tagliafuoco, né piani regolatori capaci di interrompere la corsa del disastro.

Entro tre ore, il quartiere del Velabro era perduto. Le squadre di vigiles urbani, circa settemila uomini, tentarono di contenere l’incendio, ma la pressione del vento e il collasso delle condutture d’acqua resero vano ogni sforzo. Le pompe a sifone, strumenti fragili e lenti, non potevano competere con un fronte di fiamma alto venti cubiti.

Sul Palatino, l’imperatore Nerone osservava la colonna di fumo che saliva come un pilastro nero sopra la città. Alcuni riferirono che avesse disposto l’apertura dei giardini imperiali ai senzatetto; altri giurarono di averlo visto contemplare il disastro con inquietante serenità. La voce che egli stesso avesse dato ordine di appiccare il fuoco per ridisegnare Roma si diffuse con la velocità di un incendio minore, ma altrettanto incontrollabile.

Dopo sei giorni di combustione e tre di focolai residui, il bilancio era catastrofico: dieci dei quattordici distretti cittadini completamente distrutti, tre gravemente danneggiati. Le costruzioni in muratura resistettero solo parzialmente; le statue bronzee si fusero; i templi più antichi crollarono.

Nerone avviò immediatamente la ricostruzione, imponendo norme edilizie innovative: larghezza minima delle strade, uso obbligatorio di pietra e mattoni, limiti d’altezza per le insulae. Roma, distrutta dal fuoco, divenne così un laboratorio di urbanistica imperiale.
Ma nessuna norma, nessuna architettura, avrebbe potuto cancellare il sospetto: che il primo incendio non fosse del tutto accidentale, e che dalle fiamme fosse nata, insieme alla nuova Roma, la leggenda nera di Nerone.

foto Karl Theodor von Piloty