Negli ultimi anni il successo editoriale di Mauro Biglino si è fondato su una tesi suggestiva quanto fragile: l’idea che la Bibbia non parli di Dio, ma di alieni, di ingegneri cosmici giunti sulla Terra con astronavi, intenti a creare e governare l’umanità. Una narrazione affascinante per chi ama la fantascienza, ma profondamente problematica sul piano filologico, storico e teologico. Il cosiddetto “creazionismo alieno” di Biglino non è una scoperta rivoluzionaria, bensì un bias interpretativo che piega i testi a una conclusione già decisa in partenza.
Il caso emblematico è l’uso del termine Elohim. Biglino insiste nel leggerlo come prova dell’esistenza di una pluralità di esseri extraterrestri, ignorando — o fingendo di ignorare — che la Bibbia e l’archeologia del Vicino Oriente antico sono piene di riferimenti a molteplici El, titoli divini, signorie celesti, potenze, santuari locali. Questo non è un segreto occultato dalla “teologia ufficiale”: è un dato acquisito da decenni negli studi biblici. Parlare di Elohim non significa evocare alieni, ma muoversi dentro un orizzonte semitico in cui il linguaggio religioso è complesso, stratificato, simbolico.

Ancora più debole è l’argomento del “carro volante” di Ezechiele, trasformato da Biglino in una sorta di UFO ante litteram. Il profeta Ezechiele ha visioni, non reportage tecnologici. Il genere letterario è quello apocalittico-profetico: simboli, immagini potenti, linguaggio visionario. Sostenere che una visione simbolica renda reale l’esistenza di navicelle spaziali è un salto logico che non reggerebbe in nessuna disciplina seria. Con lo stesso criterio, si dovrebbe credere che i draghi dell’Apocalisse o le bestie di Daniele siano animali zoologici realmente esistiti.
Il punto forse più imbarazzante è l’interpretazione di ruach, parola ebraica che significa respiro, vento, spirito. Ridurla a “propulsione”, “energia meccanica” o addirittura a tecnologia aliena non è audacia intellettuale, ma riduzionismo grossolano. Basta aprire un qualunque vocabolario di ebraico biblico — non un commentario confessionale, ma uno strumento linguistico di base — per accorgersi che queste letture sono forzature arricchite da fantasia narrativa, più vicine alla fantascienza che alla filologia.
Il paradosso è evidente: nel rifiuto di Dio, si finisce per diventare creduloni. Chi non accetta il Mistero trascendente cade spesso in un altro tipo di fede, molto meno critica: quella negli alieni biblici, nelle cospirazioni cosmiche, nelle rivelazioni “alternative”. Così la Bibbia, che nasce per interrogare l’uomo sul senso della vita, del male, della salvezza, viene degradata a un fumetto tecnologico. Un destino ironico, se si pensa che questa lettura “letterale” è persino più fanatica di quella di certi gruppi fondamentalisti: Biglino finisce per trattare il testo sacro con una rigidità che ricorda, per metodo, più i Testimoni di Geova che la grande tradizione esegetica.

La Bibbia non è un manuale di ingegneria aerospaziale né un diario di visite extraterrestri. È un testo spirituale, simbolico, teologico, che va letto con strumenti adeguati: filologia, storia, filosofia, teologia. Il suo scopo non è raccontare “storielle fantasiose”, ma — per credenti e non — parlare dell’uomo, della sua sete di senso, del suo rapporto con il divino e con il limite. Usarla per dimostrare l’esistenza degli UFO non è provocazione intelligente: è semplicemente un fraintendimento, reso popolare da una narrazione accattivante ma povera di metodo.
Il problema non è porre domande non convenzionali, ma confondere l’immaginazione con la conoscenza. E quando questo accade, non si fa avanzare la ricerca: la si traveste da spettacolo.
Liliane Tami