duchamp scacchi xDuchamp, Ritratto di giocatori di scacchi, 1910

“La scacchiera è stata il mio mezzo di espressione artistica: la tela su cui dipingere, il pentagramma del musicista, la pagina bianca del poeta; e a quest’arte mi sono interamente votato”.

Queste parole suggestive di Alexandre Alekhine sono tratte dal libro “Teoria delle ombre” di Paolo Maurensig, stupendo omaggio di un caro amico, un professore appassionato di scacchi. È una biografia romanzata dello scacchista russo campione del mondo. Un uomo che ha dedicato l’intera sua esistenza alla scacchiera, considerandola come unico mondo possibile.

Alekhine fu trovato morto la mattina del 24 marzo 1946, nella sua stanza d’albergo a Estoril. L’autopsia rivelò che il decesso era avvenuto per asfissia, a causa di un pezzo di carne conficcatosi nella laringe. Ma, sebbene il caso fu presto archiviato, molti sospetti gettano ombra su questa morte. Per esempio, le foto del cadavere, che secondo alcuni sono opera di una messinscena, e il fatto che Alekhine cenasse con addosso un pesante cappotto. Figura ambigua e sfuggente, il campione del mondo aveva un passato di collaborazionista ed era per questo considerato in patria come un traditore. Parte da qui Maurensig, dagli ultimi giorni di un uomo che ha celebrato la vita con l’arte degli scacchi.

Un’arte, certo, perché non si tratta di un semplice passatempo. Gli scacchisti non si limitano mai a coltivare una passione ludica ma lasciano che gli scacchi entrino, prepotentemente, a far parte della loro vita. Così è stato per artisti, scrittori, scienziati, matematici, psicologi e politici. Così è per me che ho imparato a giocare all’età di cinque anni, grazie a mio nonno. Da questo gioco, amatissimo nella nostra famiglia, ho tratto diversi insegnamenti: razionalità, progettualità, determinazione, prontezza per affrontare qualunque difficoltà nella vita. Oggi gioco con i miei figli: la piccola, quasi 4 anni, già conosce le regole e i movimenti delle pedine; il grande ha otto anni e gioca così bene da poter gareggiare con rivali più grandi di lui. Avviati al gioco logico con la dama, tutti i bambini impazziscono davanti alla scacchiera. E i benefici sono moltissimi.

Nataliya scacchiUn bambino che gioca a scacchi sviluppa le capacità logiche. Impara a risolvere problemi e a farlo sulla base delle proprie risorse, quindi accresce l’autostima. Ogni decisione va ponderata, anche sotto pressione, con la consapevolezza che sarà irrevocabile, così impara il senso di responsabilità. Tutte le partite iniziano e finiscono con una stretta di mano tra avversari: un bambino che gioca a scacchi conosce la lealtà nell’agonismo e il rispetto delle regole. Impara la concentrazione, l’autocontrollo fisico e la gestione dell’ansia. E la creatività: ogni volta dovrà inventare nuovi modi per difendersi e attaccare, e prevedere le mosse del suo rivale. In Germania, Francia, Gran Bretagna e ora anche Spagna, gli scacchi sono materia scolastica obbligatoria. Numerosi studi dimostrano un aumento del rendimento scolastico fino al 17 per cento. Una volta che impari a giocare a scacchi lo fai tutta la vita. Sono un’ottima ginnastica mentale per ritardare l’invecchiamento cerebrale e limitare lo sviluppo di malattie legate alla demenza senile.

Non esiste gioco moderno più longevo. E le sue regole sono rimaste immutate per secoli, lo sappiamo grazie ai nobili che nel passato annotavano le partite. Le origini degli scacchi non sono note, ma di certo esisteva nel VI secolo in India. È qui che è ambientata la leggenda per cui il gioco fu inventato dal bramino Sissa per offrire svago al suo re annoiato. Finalmente divertito, il sovrano volle ringraziare il creatore del gioco offrendogli qualunque ricompensa desiderasse. Egli rispose di volere un chicco di grano per la prima casella, due per la seconda, quattro per la terza e così via. La cosiddetta duplicatio scacherii, citata anche nella Divina Commedia di Dante. Dall’India il gioco si diffuse rapidamente verso est e verso ovest. Con la nascita sempre crescente dei caffè, nel 1700, il gioco acquistò popolarità. In epoca vittoriana, il ristorante Simpson’s divan divenne una sorta di mecca per i giocatori di scacchi. Così nacquero i circoli e, con l’invenzione del telegrafo, le prime partite a distanza. Con il ritorno di Lenin dall’esilio svizzero e con la nascita dell’Unione sovietica, gli scacchi conobbero la massima diffusione. Il gioco dei re divenne il re dei giochi.

Non solo gioco di società, ma anche metafora sociale. Già nel Medioevo, infatti, era simbolo della società dei Comuni: re e regina, cavalli, alfieri, torri e pedoni sono perfetta rappresentazione degli ordini sociali, dal più alto al più basso. La scacchiera è il regno dove ogni pezzo contribuisce al benessere di tutti, sottomesso al re ma con ampia libertà di azione. Durante l’Illuminismo, la capacità del pedone di rivelarsi più forte dei potenti, fu vista come metafora della rivoluzione del Terzo stato.

Conquistare il re, reclutare masse combattenti, eliminare l’avversario. Acuta metafora della guerra, gli scacchi sono un gioco di strategia, di tattiche. Dove non basta una buona mossa, occorre un buon piano. Il campione del mondo Garry Kasparov lo definiva come “lo sport più violento che esista”, le armi in campo stavolta sono le intelligenze dei rivali. “Gli scacchi sono una guerra sulla scacchiera. L’obiettivo è distruggere la mente dell’avversario”, diceva Bobby Fisher, campione statunitense e protagonista dell’incontro del secolo, divenuto simbolo della Guerra fredda.

Jack 10 Siviglia xAnatolij Karpov (fotografato nella sua residenza temporanea nei pressi di Siviglia)

Nei secoli, infatti, si è sempre affiancata alla funzione ricreativa un rilievo politico: la scacchiera è stato terreno di confronto fra legislatori e capi di stato, decretando le sorti di grandi rivalità nazionali. Già nel Medioevo i nobili organizzavano tornei di scacchi per risolvere le loro dispute. Durante la Grande guerra, il comandante tedesco pretese un incontro di scacchi con il polacco Reshevsky. Vincendo, quest’ultimo esclamò: “Tu giochi alla guerra, io gioco a scacchi”. In regime sovietico il gioco fu adottato come strumento di propaganda, per dimostrare la superiorità culturale e intellettuale. Durante la seconda Guerra mondiale, la Federazione scacchistica sovietica divenne dipartimento del governo. Non esiste nazione che negli scacchi abbia investito tante risorse e professionisti quanto la Russia. I sovietici infatti hanno avuto per lungo tempo il monopolio del gioco ai più alti livelli. Fino al 1972.
Erano gli anni della Guerra fredda e gli scacchi erano parte del sistema politico sovietico. Campione del mondo era Spasskij. E sebbene a una giornalista rispose “Io rappresento solo me stesso medesimo”, anche Bobby Fischer dovette presto ammettere il suo ruolo e l’onere di rappresentare l’Occidente. Quella partita aveva un grande significato politico. Fischer non era in Islanda alla cerimonia d’apertura. Pare ci volle un premio raddoppiato e una telefonata di Kissinger a convincerlo: “Qui è il peggiore giocatore al mondo che vuole parlare con il migliore”. Ma forse tanta attesa e le molteplici richieste dell’ex bambino prodigio statunitense, non erano altro che un piano per “svuotare psicologicamente” il rivale russo. Fischer vinse, e quell’incontro del secolo ebbe tanto seguito che da allora gli scacchi divennero popolarissimi in tutto il mondo.

Anand xViswanathan Anand fotografato a Besso, in via Sorengo 6

Fischer e Spasskij si sono sfidati nuovamente venti anni dopo, quando ormai erano altri i nomi di punta. Si narra che il primo campione del mondo sia stato Ruy Lopez, autore di uno dei primi e più famosi libri sul tema: “Libro della invenzione liberale e arte del gioco degli scacchi” (1561). Ma il primo campionato ufficiale fu quello disputato tra Steinitz e Zukertort nel 1886. Dopo di loro, Lasker, Capablanca, prima vera celebrità del mondo scacchistico, Alekhine, Botvinnik, Karpov, Kasparov. Se all’inizio il campionato era organizzato su base privata (il campione in carica decideva se accettare o meno la sfida), dopo la morte di Alekhine fu la Fide, Federazione internazionale di scacchi, a prenderne il controllo. Dal 2013 campione del mondo è Magnus Carlsen, norvegese, 26 anni. Ha vinto contro l’indiano Anand nei campionati di Chennai e di Sochi.

Scacchi KushVladimir Kush, Il cacciatore di sogni

Come collezionista d’arte e amante degli scacchi, mi affascina molto vedere come gli artisti interpretano il gioco. Ultimamente, mi ha colpito l’opera di Vladimir Kush, surrealista che ama definire la propria arte realismo metaforico. I suoi scacchi sono universalmente accessibili eppure complessi. Nel “Cacciatore di sogni” una battaglia si svolge al centro mentre i cavalli fuggono in una porta di luce sullo sfondo. La scacchiera estende i suoi confini per formare un castello. Senza limiti, come la fantasia. E poi, il senso inesorabile del tempo, con gli orologi sulle torri e la clessidra in primo piano. Parlando di surrealismo non posso non citare Salvador Dalì che agli scacchi dedicò tempo e arte, tanto da affermare: “Il gioco degli scacchi sono io”. Ma da sempre il gioco ha fatto parte della storia dell’arte. Un dipinto del 1.200 a.C. ritrae Nefertari che gioca a scacchi nella sua camera mortuaria; all’epoca medievale appartiene la Cappella palatina di Palermo dove giocatori di scacchi sono dipinti sul soffitto, nei secoli gli scacchi sono stati raffigurati su affreschi, vetro, avorio. Quando il gioco è divenuto popolare, gli artisti ne sono stati catturati: Matisse, Paul Klee, Magritte e soprattutto Duchamp. L’artista francese ne era così ossessionato da abbandonare la pittura per trascorrere le giornate giocando a scacchi. Una notte sua moglie, frustrata, incollò tutti i pezzi alla scacchiera. Divorziarono poco dopo.

La stessa passione si trova in letteratura: “La tempesta” di Shakespeare, “La difesa di Luzin” di Nabokov. “Attraverso lo specchio” di Lewis Carroll si basa sulle mosse di pezzi di scacchi che prendono vita. Scacchi nel giallo, da “Poirot e i quattro” di Agata Christie a Ian Fleming in “A 007 Dalla Russia con amore”, e scacchi nella poesia di Ezra Pound. Beckett, Reverte, T. S. Elliott, Maurensig, e anche J. K. Rowling con “Harry Potter e la pietra filosofale”.

Lo diceva Alekhine che la scacchiera è una tela, una pagina bianca. Non poteva non attrarre anche la settima arte. Il primo film dove il gioco è protagonista è “La febbre degli scacchi”, film muto del 1925 girato durante il torneo di Mosca. Contiene riprese reali delle partite e vi recita anche il grande campione Capablanca. Nel mondo del cinema, appassionato di scacchi era Humphrey Bogart che fece inserire scene con la scacchiera in diversi film, tra cui Casablanca. “Il caso Thomas Crow” del 1968 combina gioco e seduzione in una memorabile scena tra Steve McQueen e Faye Dunaway. La più celebre partita a scacchi della storia del cinema è senz’altro quella messa in scena da Ingmar Bergman ne “Il settimo sigillo”: il cavaliere Antonius Block gioca a scacchi con la morte.

La stessa immagine si trova anche in arte, in un’opera di Karl Truppe del 1942. Perché gli scacchi sono soprattutto una metafora della vita e della lotta per la vita. Si gioca sempre con la percezione di un’ombra in agguato. A volte siamo noi a decidere, artefici delle nostre fortune, altre volte siamo solo pedine nelle mani di qualcun altro, e non ci resta che affrontare la situazione al meglio. Ma sempre, una partita è una storia complessa più che un insieme di decisioni. Nella lotta tra il bianco e il nero, si vede l’uomo in balia del Bene e del Male. Alle prese con la prossima mossa, la prossima scelta. E ce ne sono infinite. Così tante combinazioni possibili che diviene impossibile, invece, conoscerle tutte. Seguendo un pensiero dello scacchista polacco Xavier Tartakower, “Negli scacchi come nella vita chi rischia può perdere, ma chi non rischia mai perderà sempre”.

Nataliya Shtey Gilardoni