Ci sarà un redde rationem? 

Qualcuno mormora “Quegli inglesi che giunsero 200 anni fa come pirati e scapparono come ladri nel 1987 con la cassa…”

Foto Wiki commons (chensiyuan)

Da giugno le proteste e dimostrazioni sempre più violente non tendono a scemare o perdere d’intensità.

Due sono gli interrogativi di fronte a noi. Il primo è come finirà il conflitto. Le risposte sono sostanzialmente tre: lo scontro perderà di intensità gradatamente e finirà con qualche concessione come nel 2014. Alla fine Hong Kong è già Cina e la sua bandiera sventola sulla ex colonia.

La seconda ipotesi è che arrestando o isolando i capi della sommossa, a poco a poco, senza leader il tutto finirà in una bolla di sapone. Una morte naturale.

La terza possibilità, tenendo conto della violenza dimostrata dai dimostranti con atti di diffuso vandalismo, attacco alle sedi del governo e scontri con la polizia, è che Pechino intervenga con l’esercito (PLA) già presente e rinforzato di recente; si dice forte di 10 mila unità.

Il secondo interrogativo è questo: ma cosa effettivamente pensano i cittadini di Hong Kong dello scontro? Tutti d’accordo? Tutti contro? Non sembra.

Per molti bisogna dire che l’inizio aveva una giustificazione. L’idea di introdurre una legge che consentiva l’estradizione verso i tribunali di Pechino per certi reati (politica, dissidenza) era inaccettabile; è stato un errore grave. Sembra incredibile che la responsabile di Hong Kong, Carry Lam, abbia potuto avere l’appoggio della leadership di Pechino.

Era uno schiaffo alla promessa autonomia, sancita nel principio “un paese, due sistemi” ed esplicitata nell’accordo del 1997. Ed è perciò che due milioni di Hongkonghesi, ¼ della popolazione, dimostrarono con grande dignità per dare un segnale che non si poteva fare. Pacta sunt servanda… E la polizia si fece da parte.

La situazione si è nel frattempo deteriorata. Lo si vede in tutti i servizi televisivi e dai resoconti giornalistici. Si è raggiunto un livello inaccettabile. Le dimostrazioni pacifiche, si sa, attraggono simpatie nel mondo. La violenza invece va in aiuto a Pechino, alienando larghi strati della popolazione agli occhi del mondo e dando a Pechino la possibilità di rappresentare il movimento come distruttivo ed anarchico, giustificando al limite un “lecito” intervento.

Infatti il governo ha incominciato ad adottare misure drastiche vietando l’uso di maschere, facendo pressioni sulle aziende dove i dimostranti lavorano, sparando liquidi blu sui presenti (per meglio identificarli) ed arrestarli. Costringe i più moderati ad astenersi per evitare ritorsioni, prigione e altro.

Per questo i leader più conosciuti come Jimmy Lai, editore di un giornale, e Joshua Wong, che incita i giovani, dovrebbero invitare tutti alla calma, a proteste non violente se vorranno sperare di ottenere risultati. Compatti, uniti, ma non violenti.

E anche i business leaders dovrebbero far sentire le loro voci per sostenere quei principi che consentano ad Hong Kong di continuare ad essere la “gallina che fa le uova d’oro…” anziché simpatizzare, restando però in disparte.

Dall’altra parte, anche i responsabili di Pechino non dovrebbero abbandonare il dialogo e capire che “distruggere e demonizzare” è la strada sbagliata, come sottolinea oggi l’editoriale del Financial Times. Prevarrà il buon senso? Veramente difficile da dire a questo punto, perché forse i buoi sono già scappati dalla stalla…

Il secondo interrogativo è quello di chiedersi, come dicevamo, quale sia il sentimento di chi vive a Hong Kong, appetto agli appelli ed alle pressioni occidentali ; in particolare di inglesi e americani che incitano a ribellarsi conclamando diritti e giustizia come se loro fossero gli epigoni della libertà.

Qualcuno mi commentò che gli inglesi giunsero 200 anni fa ad Hong Kong come pirati e se ne andarono nel 1987 come ladri con la cassa…..Per questo è noto che i cinesi non hanno un gran ricordo dei ”bei tempi “come Colonia Britannica.

Nella maggior parte della popolazione, nonostante tutto, prevale il sentimento di evitare un intervento militare. Si argomenta che Hong Kong stia perdendo terreno. È provato che molti operatori finanziano stranieri, in parte già se ne vanno o se ne andranno, consci che prima o poi tutto finirà parte della Cina e, con l’avvicinarsi della scadenza, sarà sempre peggio.

E intanto si profila all’orizzonte un altro scoglio da superare, quando a gennaio ci saranno le elezioni di Taiwan. Se, come si presume, vincerà l’attuale presidente Tsai Ing-wen, non sarà di certo favorevole all’integrazione con Pechino e di conseguenza la faccenda di Hong Kong si complicherà ulteriormente. In un discorso pubblico ieri, la Premier ha dichiarato che ”il modello un paese due sistemi” ha fallito ad Hong Kong.

Un bravo diplomatico ha scritto che la storia è sempre il risultato di errori. E, a questo riguardo, non c’è dubbio che Pechino a Hong Kong ne abbia commesso uno madornale.

In fondo, nessuno è perfetto.

Vittorio Volpi