E un grande comunista. Costruì Brasilia.

Oscar Niemeyer si è spento mercoledì 5 dicembre a Rio de Janeiro, città in cui era nato, a pochi giorni dal suo centocinquesimo compleanno. Profondamente legato al proprio paese, che ha lasciato nel 1964 per il colpo di stato militare e la susseguente dittatura dei colonnelli fino alla metà degli anni ottanta, Niemeyer è stato uno dei giganti dell’architettura planetaria, professionista serio e coerente con la sua militanza politica. Era iscritto al Partito Comunista Brasiliano dal 1945 e l’ha presieduto fino alla fine dei suoi giorni.

Amico senza fronzoli e condizioni di Cuba e del suo Comandante, ha lasciato all’isola caraibica una scultura situata nell’ Università di Scienze informatiche dell’Avana, che rappresenta la resistenza del popolo cubano alle infinite aggressioni statunitensi. Risale al 1936 l’incontro con Le Corbusier, chiamato in Brasile a realizzare una serie di edifici pubblici. Il contatto con “Corbu” costituisce un punto di partenza per il modernismo di Niemeyer, con il quale lavora al progetto del Palazzo di vetro dell’ONU a New York (1947-1952). Nella seconda metà degli anni ’50 manifesta un progressivo distacco dal “sacro catechismo” di Le Corbusier, in base a una diversa declinazione del linguaggio modernista: “Lui (Le Corbusier) è un sostenitore dell’angolo retto. Io preferisco la curva”, affermerà in seguito.


Il 1956 segna l’avvio del gruppo di opere che lo consacra principale esponente dell’architettura brasiliana: progetta strutture pubbliche per la nuova capitale Brasilia fra i quali il Palazzo del Congresso e la Cattedrale, modellati com il caratteristico calcestruzzo bianco. L’intero progetto, mirato a rivalutare palazzi pubblici e residenziali della città, era sorretto dalla sua ideologia comunitaria: ministri e semplici lavoratori avrebbero dovuto condividere gli stessi edifici.

Negli anni dell’esilio a Parigi, dove apre un suo studio, l’architetto brasiliano progetta la sede del Partito Comunista Francese (1965), il Palazzo Mondadori a Segrate (Milano, 1968), l’Università di Constantine (Algeria, 1969), il Centro Culturale di Le Havre in Normandia (1972). Tornato in patria, si dedica a una serie d’incarichi per strutture d’interesse collettivo come il Memoriale dell’America Latina (1987), il Parlamento Latino-Americano (1991), il Museo d’Arte Contemporanea (1991) l’Auditorium di Ibirapuera (San Paolo, 1999).

L’ultimo decennio lo vede ancora attivo, nonostante l’età. L’Auditorium di Ravello (Salerno, 2000), il Centro amministrativo dello Stato di Minas Gerais (Brasile, 2003), il Padiglione della Serpentine Gallery (Londra, 2003) e il progetto per il Porto della Musica (Rosario, Argentina, 2008) sono le maggiori opere più recenti. Nel rendere omaggio alla salma, la presidente brasiliana Dilma Rousseff ha parlato del progettista che non stava mai zitto, che non nascondeva le sue convinzioni politiche: “Partendo dalle ingiustizie del mondo sognava una società ugualitaria e attenta alla propria cultura storica”.

Più o meno come gran parte degli architetti nostrani, quelli che in poco meno di trent’anni hanno spalmato sugli agglomerati del Cantone i frutti dei loro progetti, riducendoli a qualcosa che li fa somigliare vagamente alla periferia sottoproletaria di Santiago del Cile del dopo 11 settembre 1973 o, se vogliamo essere più precisi, a un deserto di tetti piani che si sta mangiando le ultime testimonianze del tempo che fu.

Carlo Curti, Lugano