(fdm) Mi scrive Carlo Curti, nostro fedele collaboratore ospite appartenente alla sinistra radicale: “Fermiamoci un attimo, anzi molto di più di uno, guardiamoci alle spalle e riflettiamo su come eravamo e com’erano quelli che, a loro volta, ci hanno preceduto. Riportiamo a galla fatti e misfatti che la storia scritta dai vincenti ha cancellato, messo democraticamente fuorilegge, un po’ come si zittisce il monello che ne ha combinata una senza chiedergli dove ha preso gli stimoli per la birbonata.

Forse riusciremo a capire perché, solo per fare qualche esempio, nonostante gli stratosferici progressi tecno-scientifici si muore ancora sul lavoro (troppo!), si fatica ad arrivare alla fine del mese lavorando mediamente di più di trent’anni fa e non si vive poi tanto meglio di quando si stava peggio. È solo colpa dell’uomo, del denaro, dei furbacchioni che, credendosi eterni, passano la vita a guadagnare su quelli meno scaltri a prendere il treno dei vincenti, oppure c’è dell’altro?”

Pubblico, come sempre, il seguente suo molto discutibile pezzo, senza nascondere il profondo malessere che mi coglie. Questi Weltverbesserer – mi domando – debbono per forza diventare degli assassini? E li dobbiamo ammirare? Quasi quasi chiedo a Curti di scrivermi un articolo sul Senzani, quello di Locarno. Anche – e soprattutto – in vista della serata televisiva del 19 novembre.


Monika Ertl aveva 34 anni quel primo aprile 1971, quando si presentò al consolato boliviano ad Amburgo, dicendo di voler chiedere un visto e parlare col console. Entrò nel suo ufficio, gli puntò contro la pistola, sparò tre volte. Quintanilla cadde ucciso sul colpo. Sul petto, tre fori a forma di V, forse per dire “Vittoria”. Sulla scrivania, Monika lasciò un biglietto con scritto “Vittoria o morte”, lo slogan dell’Eln, l’Esercito di liberazione nazionale boliviano. Il console Roberto “Toto” Quintanilla, ex colonnello dei servizi segreti boliviani, responsabile della morte del Che e di Inti Peredo (oltre a quella di altri e di sevizie e torture), era l’uomo che aveva avuto la spudoratezza di farsi fotografare accanto alla bara di Peredo con la cenere della sigaretta che sta per cadere sulla testa del cadavere.

Monika era nata nell’Alta Baviera ma cresciuta in Bolivia, figlia di Hans Ertl, tedesco emigrato laggiù perché compromesso con il nazismo. Fin da giovane era scossa dalle spaventose ingiustizie sociali della Bolivia; il padre, che pure la adorava “come fosse un figlio maschio, lei che sa sparare come un uomo”, la invitò ripetutamente a lasciar stare. Così la ragazza sposò un ricco boliviano-tedesco, ma nel 1969 divorziò e lasciò la famiglia. Divenne l’amante di Inti Peredo, l’erede del Che. “E’ un Cristo con la pistola”, diceva innamorata. Anche Inti cadde, ucciso appunto da Quintanilla, che poi si fa nominare console in Germania per sfuggire a possibili rappresaglie.

Monika giurò a se stessa di vendicare il Che e Inti. Si stabilì in Germania, prese alloggio in una comune della sinistra antagonista, nello stesso palazzo del consolato boliviano, dove la dittatura militare credeva di aver messo al sicuro l’ex colonnello. I generali temevano la maledizione di Fidel Castro, che aveva detto: “Gli assassini del Che, li voglio tutti morti”. Temevano i commandos del Ministerio de la Seguridad cubano, non una giovane bavarese. Sparò con una pistola procuratagli da Giangiacomo Feltrinelli attraverso la rete internazionale dell’ultrasinistra, poi fuggì in Bolivia dove fu tradita e uccisa nel 1973, in un’imboscata organizzata dal noto criminale nazista Klaus Altmann Barbie.

Invano il padre, informato della morte, chiese la consegna della salma. Gliela negarono, forse per non mostrare che era stata torturata prima dell’uccisione. Monika rimase una combattente senza tomba, caduta nella giungla. Si dice che i suoi resti riposino “simbolicamente” in un cimitero di La Paz e sulla pietra tombale ci sia il nome vero, non quello di battaglia “Imilla”, ragazza india, assunto per prendere l’identità degli oppressi e non degli oppressori. La realtà è che il corpo riposa in qualche luogo sconosciuto della Bolivia, forse in una fossa comune senza croce né nome.

Così è stata la vita di questa donna che, secondo la destra più impresentabile di quegli anni, ha militato combattendo “nel comunismo” e pertanto “nel terrorismo” in Europa; per alcuni il suo nome è rimasto inciso nei giardini della memoria come guerrigliera, assassina o forse terrorista, per altri come donna coraggiosa che ha compiuto una missione e vissuto una vita all’insegna dell’obiettivo rivoluzionario.

Monika non fa parte necessariamente degli eroi a tutto tondo, quelli la cui fama si trasforma quasi subito in leggenda; incarna piuttosto il gesto e l’insofferenza profonda per il conformismo e le ingiustizie di chi va incontro al destino con innamorata leggerezza. Insomma chi, riprendendo una poesia di Carlo Giuliani, non è qui per chiedervi né vita né perdono ma per mostrare a tutti chi veramente sono: non un assassino, un ladro o un traditore ma un essere qualunque, con una testa e un cuore.”

Carlo Curti, Lugano


Si noti la forte componente romantica presente in questo articolo (come anche in Giangi Feltrinelli, Paperone rivoluzionario – citato nel testo – “auto dinamitatosi” a Segrate mentre giocava alla guerra). Fu (anche) un romanticismo dissennato – ne sono convinto – a portare molti sessantottini sulla via criminale del terrorismo.

NOTA. Il pezzo, come ho controllato, si appoggia largamente a un articolo pubblicato su dagospia.com