Ho terminato ieri un mio scritto addebitando a Napolitano un ultimo, fatale errore. Quale? Quello di non aver saputo o potuto concedere “propria sponte” la grazia a Berlusconi. Un gesto che, come cercherò di dimostrare ripubblicando un  saggio sul tema di un mio caro amico, gli avrebbe permesso di accedere al colle dei grandi uomini di Stato invece di rimanere, come rimarrà, al livello molto più basso del Colle, il livello, tanto per dire, di un Oscar Luigi Scalfaro.

Il quadro politico italiano è catterizzato da una litigiosità e da un’acrimonia insuperabili. Lo è soprattutto da parte della sinistra, ammalata di una letale antiberlusconite viscerale e irreprimibile. La destra, in particolare quella berlusconiana, ha dimostrato ben più senso dello stato, cedendo prima il passo ad uno scriteriato (ma al momento della sua nomina non si sapeva che lo fosse) Mario Monti  e poi, incontrovertibilmente, assicurando il proprio indispensabile sostegno ad un governo Letta (un  modesto apparatchik presidente del consiglio che non ha mai trovato una parola di rispetto per questo comportamento dell’odiato leader della destra: ma si sa, Letta  è leader del niente, e l’invidia è una brutta consigliera).

Concedendo la grazia Napolitano si sarebbe guadagnato i mugugni e le proteste della sua sinistra, niente di grave, visto che è il presidente, e due volte presidente, rieletto quasi di forza, proprio di questa sinistra. Avrebbe però decisamente indicato ai riottosi politici dello stivale che si può e si deve convivere, anche nel quadro di grandi coalizioni, come quelle che in pratica governano quasi tutte le nazioni europee. Magari solo in attesa di una legge elettorale di là da venire che permetta un governo di tipo unipolare. Un dato di fatto accettato a destra, ma che non riesce a penetrare le spesse e fibrose meningi di sinistra.

Ripropongo qui, in un saggio di alto livello del mio caro amico avvocato Franco Gianoni, alcune considerazioni sulla grazia come facoltà del solo capo di Stato e sulla sua concessione da parte di 2 grandi uomini di Stato come Charles De Gaulles e François Mitterrand.

La separazione dei poteri e il bisogno di giustizia

Da un po’ di tempo seguo, con vivo interesse, le vicissitudini politiche e giudiziarie italiane, anche perché mi richiamano quelle, appassionanti ma finite tragicamente, della III e IV Repubblica francese. Non intendo però commentare la recente sentenza della Corte di cassazione che ha condannato l’on. Silvio Berlusconi, perché non conosco l’incarto. Quindi solo alcune riflessioni sugli argomenti dell’aspro dibattito mediatico che l’ha preceduta e che sicuramente continuerà per parecchio tempo ancora, i cui echi giungono fino a noi.

La separazione dei poteri, innanzitutto. Nessuno la nega. Però si dimentica che non è e non può essere assoluta, muro contro muro, perché paralizzerebbe il buon funzionamento delle istituzioni: basta pensare che presupporrebbe anche una rigida immunità parlamentare e il Legislativo non potrebbe censurare l’Esecutivo, per cui è necessaria una relativa compenetrazione. Lo dice Montesquieu stesso, che, appunto per questa ragione, predilige l’espressione «balance des pouvoirs» (bilancia dei poteri); e la bilancia, notoriamente, oscilla.

In secondo luogo, nei confronti di chi? Ovviamente del Legislativo e dell’Esecutivo, i quali, per natura, in quanto responsabili del buon funzionamento delle istituzioni, sono portati ad «occuparsi» della giustizia e hanno i mezzi di pressione per farlo, quindi anche per abusare. Il principio, altrettanto ovviamente, vale anche nei confronti del giudiziario il quale, come ogni potere, è portato, anch’esso, in tutti i tempi e a tutte le latitudini, ad abusarne: dal «gouvernement des juges» alla pretesa di erigersi a censore o tutore delle istituzioni, adducendo quale pretesto la sua indipendenza, mentre, il più delle volte, è una stretta dipendenza dai gruppi di pressione, in particolare dal partito al potere o da quelli che vogliono conquistarlo. Questo spiega il consiglio (a prima vista sorprendente, dato da lui socialista) del presidente francese François Mitterrand al primo ministro Edmond Balladur all’inizio della seconda coabitazione tra destra e sinistra: «Bisogna far molta attenzione ai magistrati, se la prendono oggi con noi, se la prenderanno domani con voi», consiglio che gli ripeteva spesso «sempre a proposito dei magistrati e sempre a proposito dei rischi che la loro azione comporta per gli uomini politici di ogni bordo» (Le Pouvoir ne se partage , ed. Fayard pag. 42).

Ma, la critica? Contro il Legislativo e l’Esecutivo? Ovviamente e nessuno mette in dubbio la sua legittimità, anche se critica feroce, perché, oltre a consentire il controllo, suscita la dialettica grazie alla quale le soluzioni si trovano o si affinano. E contro la giustizia? Certamente, ma il problema è più delicato e spesso suscita un’accesa irriducibile contesa, per cui occorre una riflessione in più: il sovrano è il popolo dal quale tutti i poteri traggono la loro legittimità. Il popolo deve quindi intervenire per reprimere gli eccessi o ovviare alle carenze dei tre poteri, specie quando la legalità è in contrasto con la legittimità o la verità processuale (la sentenza) è in manifesto contrasto con la verità storica. Ma il popolo, salvo quando vota, è inorganico: ecco allora giustificata la presenza nella vita politica della stampa, la «sentinella del popolo», secondo l’espressione di La Rochefoucauld, pluralistica naturalmente, affinché sia possibile la «balance», il controllo reciproco anche nel quarto potere.

Faccio solo due esempi, tra i più clamorosi: l’affaire Dreyfus, le cui sequele dividono ancora oggi i francesi, e l’affare Jean Calas, dal quale è scaturito il famoso Trattato sulla tolleranza di Voltaire. Quest’ultimo aveva addirittura coniato un’espressione sprezzante a proposito dell’ingiustizia giudiziaria: boeufs-tigres (bestie come i buoi e feroci come le tigri), mentre Georges Sorel aveva definito «domestici giudiziari» i giudici della Corte di cassazione nell’ambito del citato affaire Dreyfus e, molto tempo prima, Tacito aveva sentenziato: «Sono i despoti maldestri che si servono delle spade; l’arte della tirannia è di fare la stessa cosa con i magistrati». Né è possibile dimenticare che i cahiers de doléances, preludio della Rivoluzione francese, erano composti soprattutto di rimproveri sul cattivo funzionamento della giustizia. Il malcontento era tale che gli insorti, il 14 luglio 1789, hanno demolito la Bastiglia e fatto di questa data la Festa nazionale. A torto, a mio giudizio, perché in essa vi erano soltanto o quasi criminali di diritto comune e, fin quando ci saranno uomini, purtroppo, ci saranno Bastiglie, per cui scelta migliore sarebbe stata il 4 agosto, data della soppressione dei privilegi o, meglio ancora, il 28 agosto, data della proclamazione della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino.

E la grazia, che pure fa tanto discutere e divide? La pena deve essere eseguita ed è compito dell’Esecutivo farla eseguire integralmente, a meno che, fatto eccezionale, intervenga la grazia, la quale però non viola la separazione dei poteri, perché si riferisce all’esecuzione, quindi sfugge al potere giudiziario, proprio in base a detto principio. Di conseguenza, la grazia non incide sulla sentenza, la quale, salva la revisione, rimane integra per sempre. Il suo scopo è correggere una possibile grave diseguaglianza tra le conseguenze derivanti, dall’esecuzione parziale o totale della pena, al condannato o alla società (l’ordine pubblico e il buon funzionamento delle istituzioni) e le conseguenze normalmente derivanti dalla stessa pena inflitta a una persona comune. Ne segue che non sconfessa minimamente il tribunale il quale deve giudicare secondo la legge. Essa è un provvedimento esecutivo, ma di esclusiva competenza del capo dello Stato, che, per indipendenza e imparzialità (in quanto al di sopra dei partiti e dei tre poteri), è il solo in grado di giudicare oggettivamente se le eccezionali condizioni di fatto per accordarla sono date e, se sì, in che misura.

Ecco due esempi clamorosi: la grazia parziale concessa da De Gaulle al maresciallo Pétain, condannato a morte per collaborazionismo durante i quattro anni di occupazione della Francia da parte dei tedeschi; quella totale concessa (con la restituzione del titolo di generale d’armata e delle numerose decorazioni) dal presidente Mitterrand al generale Salan, condannato all’ergastolo, in quanto capo dell’Organizzazione armata segreta durante la guerra d’Algeria, organizzazione che aveva insanguinato quest’ultima e la Francia con centinaia di attentati, parecchi mortali. Nell’uno e nell’altro caso ha prevalso la pacificazione della nazione e il normale funzionamento delle istituzioni. Il presidente Giscard d’Estaing, centrista, aveva negato la grazia a Salan (anche per questo non venne rieletto).

Quindi, contrariamente alle apparenze, la grazia non viola il principio secondo cui «la legge è uguale per tutti», ma lo attua. Ciò spiega perché il condannato non la invoca, ma la propone, può essere accordata anche senza il suo intervento e contro la sua volontà, non può essere rifiutata e non preclude la possibilità di chiedere e ottenere successivamente la revisione della sentenza. Tutto ciò spiega perché è sempre esistita ed esiste anche nei Paesi più democratici: fa parte del diritto naturale, «salus populi suprema lex esto» (la salvezza del popolo sia la legge suprema, Cicerone, De legibus ).

Quale conclusione? Lo Stato di diritto, notoriamente, è nato e sopravvive grazie a un imperioso bisogno di giustizia che fa parte dell’inconscio collettivo, anche se il Welfare l’ha offuscato un po’. Di conseguenza, è da augurarsi che la recente decisione della Corte di cassazione abbia ad intensificare questo bisogno fino a provocare una totale riforma della giustizia civile e penale italiana, senza la quale gli sforzi per migliorare il funzionamento dell’istituzione e stimolare l’economia, a medio termine, saranno vani. Naturalmente avrei detto tutto questo anche se la Corte di cassazione avesse assolto l’on. Berlusconi.

Aggiungo, per la trasparenza, che personalmente ho fatto una brutta esperienza con la giustizia italiana, ancorché assolto, dopo 47 trasferte a Milano, perché «i fatti non costituiscono reato», e ne ho tratto un libro: Un processo a Milano – Anatomia di un procedimento penale arbitrario . E noi? Noi, fortunatamente, siamo al riparo da queste lacerazioni. Però il buon funzionamento delle istituzioni è come la salute della persona: talvolta vacilla, per cui ogni situazione ingiusta va combattuta perché, specie se ripetitiva, può diventare grave e la salute è fragile o, per dirla con il grande Louis Jouvet in Knock ou le triomphe de la médecine di Jules Romain: «Le persone che stanno bene sono ammalati che si ignorano». Quindi, usando la parola delle infermiere che circolano negli ospedali con i letti, a ogni curva: «Occhio!».

avv. Franco Gianoni

So con certezza, e potrei testimoniarne in tribunale, che il saggio di Gianoni è stato letto da Luciano Violante (ex procuratore d’assalto e primo aggressore di Berlusconi presidente del consiglio in occasione di un vertice dei G8 a Napoli, reso poi saggio, Violante, dall’esperienza di vita e dagli anni che passano). Da come si è comportato l’ex magistrato durante le ultime settimane precedenti la defenestrazione di Berlusconi deduco che ne ha tenuto conto. E deduco anche con pratica certezza (“mit an Sicherheit grenzender Wahrscheinlichkeit” direbbero i tedeschi) che ne ha informato il suo grande amico Napolitano. Purtroppo per un 87enne veterocomunista, crogiolatosi per 20 anni nell’odio nei confronti di Berlusconi, la concessione della grazia non rientrava nel campo delle possibilità. Richiesta era la domanda di grazia da parte del pregiudicato, per una prima umiliazione. Alla quale sarebbe naturalmente seguita la seconda con il rifiuto, motivato dalle stesse argomentazioni viscerali con cui Napolitano ha giustificato la negazione della grazia “sua sponte”.

Mi dispiace, sinceramente, che Napolitano abbia perso un’occasione d’oro per salire sul colle dei grandi uomini di Stato pacificando o almeno calmando nel contempo un mondo politico riottoso e litigioso che sta portando alla rovina l’Italia vicina (sempre) e amica (sempre meno).

Gianfranco Soldati