Tim Guldimann è il nostro ambasciatore a Berlino, e per un anno incaricato speciale del presidente dell’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico). L’attuale presidente dell’OCSE è il presidente del Consiglio federale, e quindi nostro presidente, nazionale (preciso, perché di nostri presidenti ne abbiamo tutti a iosa), Didier Burkhalter, PRL di ferro. Nella sua qualità di incaricato speciale Guldimann assolve per conto di Burkhalter il compito di “aiutare a mettere ordine” nel caos ucrainico, agendo da moderatore nei vari e svariati colloqui avviati per giungere ad una pacificazione tra i belligeranti. Dopo essere inutilmente stato in Crimea per tentare di evitarne l’annessione russa, naviga adesso, con punto di riferimento a Kiew, tra Mosca e Berlino. Non è che abbia ottenuto risultati concreti, ma grazie al suo lavoro il prestigio della Svizzera (lui nega la sua parte di merito, attribuendolo tutto al suo grande capo) dai Pirenei agli Urali sarebbe considerevolmente aumentato.
Mesi fa, tra un volo e l’altro per le necessità del suo impegno, è atterrato a Zurigo per tenervi una conferenza in cui ha duramente criticato l’eccesso di democrazia diretta di cui soffre la Svizzera. Un abuso che impedisce o almeno rallenta in modo inaccettabile l’operato di chi come lui, conoscendo a fondo, per intelligenza superiore e attività professionale, i problemi sul tavolo, si impegna per risolverli vantaggiosamente per noi e per i nostri antagonisti, vale a dire per tutti.
La “Weltwoche” del 24 luglio gli ha dedicato una lunghissima (6 pagine), minuziosa e puntuale intervista, riferita alla sua attività di incaricato presidenziale dell’OCSE nelle trattative in corso tra Putin, Kiew e UE (una povera identità politica completamente asservita agli ordini di Washington, anche se tenta disperatamente di far credere il contrario). Guldimann nella prima gioventù è stato comunista e 68ttardo attivo. Accortosi che una simile militanza impediva praticamente l’accesso alle cariche prestigiose e ben retribuite cui pensava di aver diritto per la sua superiorità etica e intellettuale, non tardò a passare nelle file del PS, in cui milita tuttora, nell’ala sinistra. Fautore convinto dell’adesione incondizionata all’UE, adesione che ancora sta nel programma del suo partito, l’ambasciatore constata lucidamente che la cosa al momento attuale non è proponibile al popolo, dove i populisti euroscettici hanno chiaramente la meglio. Dall’intervista trasuda un tal disprezzo per la destra populista da consentire a chi dissente, come il sottoscritto, di parlare di una sinistra cretinoide, incapace di un minimo di rispetto per chi non condivide il suo pensiero.
Che i fatti, che sono l’impoverimento in cui sta cadendo una larga maggioranza della popolazione europea, colpendo in particolare le fasce più deboli e il ceto medio, smentiscano le grandi visioni e i progetti utopici, non sembra far impressione alcuna sulle considerazioni dell’ambasciatore-incaricato speciale a Berlino e Kiew. Penso, ma non ne sono sicuro, che ciò dipenda dalla sicurezza del lauto stipendio e delle ancora più laute pensioni garantite dalla Confederazione da una parte, e dall’OCSE, organizzazione altamente parassitaria, dall’altra.
Di questi ribelli marxisti e rivoluzionari convinti, che moderano i toni ma non cambiano il fondo dell’anima quando si tratta di far carriera, ne conosciamo in abbondanza. Il loro rappresentante più prestigioso (termine che qui sta per ripugnante) si chiama Joska Fischer, un altro potrebbe essere Daniel Cohn-Bendit Ed il terzo proprio il nostro Tim Guldimann. Personaggi che si credono tali per aver avuto in gioventù alti e nobili ideali, guardandosi poi, nel prosieguo della prestigiosa carriera che è loro dovuta, dall’abbandonare la sicurezza dello stipendio pubblico, con relativa pensione fin che morte ne segua.
In una lettura della prefazione di un libro con traduzioni in italiano di celebri testi del premio Nobel per la lettura del 1957, Albert Camus, ho trovato scritto, e riproduco integralmente:
“Devo precisare qui che non credo vi sia cosa più facile che “farsi” degli ideali: e più sono alti e folli più è facile. Allo stesso modo non c’è cosa più difficile che assumere degli ideali oggettivi, realistici, che tengano conto della massa umana e non solo dell’eccezionale in essa. L’intera storia del nostro secolo (n.d.a.: era il ventesimo) lo mostra. Mostra, voglio dire, in che modo l’esasperazione a suo modo mistica degli ideali (Hitler, razzisti in genere) possa spingere alla catastrofe collettiva, e in che modo invece l’oggettivazione di essi (democrazia, pensiero democratico) possa costruire o tentare di costruire. Con questo però da aggiungere: che costruire “oggettivamente” sarà sempre infinitamente più faticoso, più impegnativo che distruggere “romanticamente”. Da condividere, sostituendo al romanticismo l’ideologia o l’utopia.
*
Letto il 1. settembre il commento di Aldo Sofia su “La Regione”, concernente “Il nuovo disordine mondiale”. Un articolo lucido ed equilibrato, a mio modesto parere tutto da condividere. Per Sofia, ai tempi in cui imperversava a Comano, non ho mai nutrito eccessiva simpatia e, se debbo proprio dire la verità, neanche scarsa simpatia. Ancora meno quando faceva la sponda, come costosissimo e secondo me inutile inviato speciale della nostra televisione, tra Bruxelles e Parigi. Ma ho visto, con il passare del tempo, che i suoi iniziali fervori euroforici si sono sempre più attenuati. Negli ultimi tempi i suoi giudizi della situazione geopolitica mondiale sono diventati sempre più convincenti, in special modo per me, visto che adesso condividiamo in pratica la visione delle cose. Brillante, in questo ultimo articolo, l’apprezzamento dell’onestà intellettuale del povero Obama e la descrizione delle mille difficoltà in cui si dibatte, tra cali di popolarità di cui potrebbe anche infischiarsi per l’avvicinarsi a grandi passi dell’abbandono dell’ufficio Ovale, e la montagna di problemi irrisolti che si lascerà necessariamente alle spalle. Un brutto auspicio per il successore, democratico o repubblicano o Signora Clinton che sia.
Gianfranco Soldati