Tempo di elezioni, tempo di bilanci (titolo originale)
Laura, quell’imbarazzante eredità (titolo demariano 1)
Dura filippica del masoniano Sergio (titolo demariano 2)
(fdm) Il suo “peccato mortale” Morisoli lo commise nel 2011 e per 4 anni non gli è stato perdonato (forse per l’eternità? Bisogna tener conto del fatto che l’eternità appartiene a Dio, non agli uomini). Morisoli non ha cessato di dichiararsi liberale – anzi, più liberale dei Liberali stessi. E Masoniano, s’intende. Questo può avere il suo peso in un frangente politico in cui il vertice del partito ha manifestato il suo disfavore alla sua Consigliera di Stato, provocandone in pratica la partenza. (Bisogna però anche ammettere – per obiettività – che il comportamento parlamentare del PLR è stato tutto meno che “masoniano”. Mi verrebbe da dire “ondivago”, ma forse sono di manica larga).
Io sono sempre stato masoniano. Già negli anni Ottanta lo ero. Ancor più in quel 1987 estremamente drammatico e lacerante che portò all’elezione simultanea di Martinelli e Bervini, un trionfo socialista! Oggi ben pochi si ricordano di quel grandioso tumulto perché, quasi tutti, sono nati dopo. Fu anche l’anno in cui Marina fu eletta per la prima volta in Gran Consiglio. Io ero un professore del “Liceo rosso” e frequentavo Tullio, Giovanni, Gianfranco, Elio, eccetera. Mi trovavo bene con loro. Scrivevo sulla Gazzetta e non sul portale perché i tempi erano antichi.
Ha fatto bene Sergio a ricordare Marina, con annotazioni puntuali e rispetto (e, senza alcun dubbio, affetto). Non bisogna aver paura di parlare di lei. Dopo 8 anni il Partito deve superare quel trauma, che è costato “lacrime e sangue” (parole di Churchill). Questa mia considerazione potrà suscitare proteste (e pazienza) o cadere nella più perfetta indifferenza.
Adesso all’opera. Il liberale on. Sergio Morisoli ha qualcosa da dirci.
I politici in campagna elettorale tendono a promettere soluzioni, pochi si impegnano a dirci cosa hanno fatto, i partiti se ne guardano bene. La politica finanziaria ed economica è uno di quei campi in cui l’interventismo o il non interventismo giocano ancora un ruolo non solo accademico o ideologico ma pratico. Abbiamo l’occasione di mettere a confronto sull’arco degli ultimi 20 anni due periodi sufficientemente rappresentativi in cui ha prevalso una volta il non interventismo e l’altra volta l’interventismo.
Nel 2007 quando Marina Masoni e il sottoscritto lasciammo il DFE, dopo 12 anni di politica “non interventista” che banalmente significava sgravi fiscali, riduzione della spesa e condizioni libere per l’economia, l’eredità fu: i conti dello stato praticamente in pareggio per altri 2 o 3 anni, il debito pubblico riportato a 1,2 miliardi (livello di fine anni 80!), debito procapite a 3’923 franchi, una sopravvenienza di imposte di 450 milioni (tesoretto), una diminuzione di circa il 35% della pressione fiscale per le ditte con un incasso aumentato del 40 % in più, sgravio sensibile per le famiglie (esempio reddito imponibile di 40’000 franchi da 4’412 franchi di imposte annue a 1’669), una attrattività fiscale intercantonale al 4. posto, una crescita della spesa sull’arco di 8 anni di 351 milioni pari al 15,2% , 460 mio di risparmi strutturali, le spese del personale a 850 mio, una legge sul freno alla spesa (poi ritirata dall’attuale governo), 101 misure, un libro bianco per il rilancio economico, Copernico, una disoccupazione al 4.4 % con 9’557 in cerca di impiego, 38’000 frontalieri.
Alla fine del periodo 2007-2015 definibile “interventista” che banalmente significa più spesa, più imposte e più regolazione dell’economia, l’eredità che ci lascia il DFE di Sadis è: conti dello stato praticamente nel caos con una somma impressionante di disavanzi annuali consecutivi passati e futuri fino almeno al 2018, un debito pubblico che da 1,2 miliardi (Masoni) è salito a 2 miliardi (procapite 5’763 franchi, aumento del 47%!) con previsione fino a 2,4 miliardi nel 2018 (raddoppio in 10 anni!), una spesa cresciuta in 8 anni di 573 milioni pari al 21,3%, le spese del personale a 1’000 mio, nessun esercizio di riduzione strutturale delle spese, il tesoretto di imposte dilapidato (450 milioni), nessuno sgravio fiscale, il gettito di imposte stagnante tendente alla diminuzione, l’aumento di nuove imposte, invenzione di tasse causali e balzelli amministrativi, il moltiplicatore automatico di imposte (invece del freno spesa), il 21. posto nella graduatoria dell’attrattività fiscale intercantonale, una disoccupazione al 4.8% con 11’226 cercatori d’impiego, 62’400 frontalieri, dumping salariale, lotta tra sindacati e aziende.
Il partito che ha gestito il DFE da un secolo all’altro è sempre lo stesso. Le sue due ministre ben diverse. La prima, una liberale che metteva prima il cittadino, prima le imprese, prima la società civile con i suoi corpi intermedi e poi caso mai lo Stato al loro servizio; la seconda, una radicale socialista che ha invertito questo ordine mettendo tutti al servizio dello Stato tentando di far dipendere tutto dall’azione politica, dalle regole e dagli uffici. Da una parte libertà e responsabilità e fiducia ai cittadini e alle imprese; dall’altra controllo e pianificazione e fiducia nella burocrazia e nel controllo amministrativo dei cittadini e delle imprese. La differenza nei risultati finanziari si vede eccome! Il partito a un certo punto ha preferito con la forza la seconda alla prima. Dopo 20 anni di esperienza empirica e di dati inconfutabili, quel partito farebbe bene a tirare una conclusione; e per il bene del Paese fare mea culpa e finalmente dirci prima delle elezioni che via sceglie. Altro che svignarsela con un banale: né liberali, né radicali ma al centro.
Sergio Morisoli, presidente di Area Liberale, candidato al Gran Consiglio per “la Destra”