Vi fu un tempo in cui sulle torri d’ ogni potentato dell’Italia Centro-Settentrionale, fieri stendardi parevano sfidare il vento, stagliandosi forti contro la bruma della pianura padana, per ricordare al muto osservatore che ivi passava, che quelle erano le terre di potenti signori il cui dominio era destinato ad essere ricordato per molti secoli a venire. Una di queste signorie, fu quella dei Visconti, dallo stemma serpentino, signori di Milano e artefici, assieme ai di loro successori, gli Sforza, della splendida epopea rinascimentale lombarda.

Il Ducato di Milano – Visconti e Sforza, un’egemonia, una signoria.
Diafano e rosato nel suo marmoreo splendore, si erge, oggi come allora, muto e ieratico testimone dei secoli passati, il Duomo. Simbolo di Milano e di tutto il Nord d’Italia, quel monumento unico al mondo per perfezione e innovazione e per irripetibile magnificenza, pare frutto d’un sogno. E, in effetti, fu di un sogno il simbolo. Nel 1386 infatti, dopo aver ottenuto dall’imperatore il titolo di Duca di Milano, Gian Galeazzo Visconti ordinò la costruzione di una cattedrale gotica, che potesse rendere Milano capitale di quella monarchia dell’Italia nordica in cui il condottiero sognava. Si, perché i tempi erano cambiati e sulle ceneri dell’egemonia Imperiale, già precedentemente provata dalle vittorie dei Liberi Comuni, sorgevano ora nuove, indipendenti signorie.

gian galeazzo visconti

Gian Galeazzo Visconti

Il tramonto della potenza imperiale, seguito alla morte di Federico II, aveva mostrato il fallimento della politica centralistica e segnato l’inizio dell’espansione progressiva delle potenti città del centro-nord, atte da sempre all’auto amministrazione, e della delega dell’esercizio del potere a un signore, ritenuto capace, dal consenso popolare, a governare in modo imparziale.

Preso il potere dopo aver vinto i Dalla Torre nella battaglia di Desio del 1277, Matteo I Visconti diede inizio ad una politica di espansione, giunta all’apice con Gian Galeazzo Visconti. Questo milanese, oltre ad essere un politico eccezionale, fu anche un ottimo strategista, anche a costo di spendere la colossale somma di 300mila fiorini per deviare il Mincio dalle principali città che bagna, Mantova e Padova, per indebolirle. Cinico calcolatore e abile politico, certamente fu colui che più d’ogni altro amò Milano.

E se di fatto Milano una monarchia non divenne mai, vero è che fu una delle più splendenti signorie ed il suo Duomo fu di un gotico “internazionale”, centro di pittura e scultura in contatto con l’arte francese e tedesca.

Il duca successore di Gian Galeazzo, Filippo Maria Visconti, volle tentar d’espandersi ulteriormente ma, occupando Genova si ritrovò Venezia e Firenze riunite in una lega contro di lui. Sconfitto a Maclodio dal Conte di Carmagnola (colui che sarà reso celebre nell’omonimo componimento teatrale del Manzoni), morì senza lasciare altri eredi che la figlia tredicenne Bianca Maria.

filippo maria visconti

Filippo Maria Visconti

Sposa sedicenne del quarantaduenne Francesco Sforza, aveva passato la breve infanzia presso il castello di Abbiate, l’attuate Abbiategrasso, risultando fin da subito gradita al padre per il suo temperamento onesto e poco frivolo. Fu proprio durante i festeggiamenti nuziali tenutisi a Cremona, che, si dice, alcuni cuochi cucinarono una squisita imitazione del Torrazzo, torre simbolo della città, dando così origine all’odierno torrone. Bianca fu senz’altro una personalità forte e autoritaria, profondamente rispettata(e forse anche amata) dal marito, con il quale condivideva o meno le posizioni politiche.

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Francesco Sforza

A diciassette anni fu nominata contessa reggente della Marca dal marito. A diciotto, tradita, fece rapire e uccidere la rivale, impendendo al marito di vedere il figlio Polidoro, nato dalla relazione adulterina. A ventitré (1448) indossò l’armatura e imbracciò la lancia e combatté a fianco di Francesco durante l’assalto del ponte di Cremona, per riprendersi Pavia, caduta nelle mani dei Veneziani. Vittoriosi, i due sposi rientrarono, a cavallo, a Milano ove, con il consenso popolare, furono nominati duchi con una cerimonia trionfale che si concluse con la consegna del sigillo, dello scettro e delle chiavi della città mentre sulle alte mura sforzesche sventolavano gli stendardi gialli con l’aquila imperiale e la vipera viscontea.

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Bianca Visconti

Fautrice assieme al marito del mantenimento della Pace di Lodi (1454) tra i molti potentati dell’Italia dell’epoca, protesse numerose donne maltrattate e indusse Francesco ad istituire l’Ospedale Maggiore per dare sostegno ai ceti sociali più bassi. Nel 1462 la duchessa offrì a Papa Pio II un contingente di trecento fanti per una crociata contro i Turchi (i quali, massacrandone gli abitanti, devastavano Costantinopoli caduta in man loro nove anni prima) che Francesco stesso si prese l’onere di guidare ma che, di fatto, non avvenne mai. Nel 1466, dopo aver perso la madre e aver detto addio a tre dei suoi cinque figli, partiti per missioni diplomatiche, Bianca, nominata reggente dal marito ormai in preda alla gotta, rimase vedova. Onorata dal popolo ma ormai emarginata dalla corte, che la riteneva pericolosamente potente, due anni dopo, all’età di quarantatré anni, si spense. Alcuni insinuarono che fu avvelenata dal figlio Galeazzo, stanco del suo troppo potere e smanioso di impadronirsi della città di Cremona, possedimento materno.

Pur forse colpevole di matricidio, artefice dell’abbellimento della sua Milano, Galeazzo non ebbe sorte felice, venendo assassinato il 26 dicembre del 1476 , sulla soglia della Chiesa di Santo Stefano, a trentatré anni neppure compiuti. I tre congiurati, mossi sia da questioni politiche particolarmente care alla nobiltà milanese a lui avversa e allo stesso re di Francia Luigi XI di Valois, sia da risentimenti personali, furono poi messi a morte dopo tortura, uno di essi inoltre, fu squartato da vivo. Gli successe nel 1480, dopo tre anni di reggenza materna, il figlio Gian Galeazzo Sforza (di certo, i signori di Milano non ebbero fantasia coi nomi, come del resto i re di Francia). Ragazzino biondo e dal volto angelico, ispirò molti pittori a lui contemporanei che ne ritrassero la bella persona per raffigurare, in maniera tristemente profetica, San Sebastiano. A tredici anni sposò la savia ed altrettanto giovanissima Isabella d’Aragona e per le nozze fu Leonardo da Vinci stesso a mettere in scena le rappresentazioni teatrali. Il giovinetto però non ebbe certo fortuna. Relegato in un castello di Pavia dallo zio Ludovico Sforza detto il Moro, malfermo di salute, affidò senza successo la speranza di riappropriarsi del proprio titolo alla moglie Isabella, nipote del re di Napoli.

ludovico il moro

Ludovico il Moro

Quando nel 1494 il re di Francia Carlo VIII discese in Italia per impadronirsi del Mezzogiorno, Ludovico il Moro si mostrò entusiasta e, recatosi a Pavia, lo accolse festosamente. Pochi giorni dopo il giovane Gian Galeazzo moriva, dopo aver ricevuto l’ambigua visita dello zio.

Ludovico era figlio della sovra citata Bianca Maria, e dalla madre stessa, appena nato, era stato definito ‘il puto che mi è il più sozo (=brutto) di tutti gli altri’. Poté vantare una splendida corte e, pur non essendo particolarmente avvenente, anche una bella amante, la quindicenne Cecilia Gallerani. Alta ed esile, capelli ed occhi castani, lo sguardo profondo e fuggevole, la pallida damigella fu da subito attratta dall’illustre fiorentino che per il duca progettava macchine da guerra ma inventava anche strumenti musicali ed organizzava spettacoli pirotecnici. Leonardo intrecciò con la ragazza una sincera amicizia e le propose di posare per quel ritratto che l’avrebbe eternata: la Dama con l’Ermellino. Sì, perché ermellino in un francese antico si dice galle e Cecilia aveva di cognome Gallerani. Poi la giovane cortigiana fu costretta a dire addio al suo protettore e all’artista che tanto aveva ammirato, poiché il destino aveva per lei decretato che sposasse l’anziano Conte Bergamini, proprietario del feudo di San Giovanni in Croce nel Cremonese. Chissà se Cecilia pianse, nel dir addio alla sfarzosa e francesizzante Milano…

cecilia gallerani

Cecilia Gallerani (La Dama con l’Ermellino)

Ludovico aveva avuto una figlia da un’amante alla quale aveva dato lo stesso nome della madre. Fanciulla diafana, Bianca Sforza era stata data in sposa tredicenne al capitano delle armate milanesi, il ventisettenne Galeazzo Sanseverino, ma era morta a novembre dello stesso anno. Recentemente in una collezione privata, in Canada, è stata trovata una pergamena con un ritratto, attribuito a Leonardo da Vinci di una fanciulla dalla lunga treccia bionda e dagli occhi verdi. Ormai scientificamente e storicamente attestato quale opera del genio fiorentino, oggi il ritratto, salito al vertiginoso valore di 107 milioni di euro, è quasi certamente riconosciuto quale raffigurazione commemorativa della duchessina.

Torniamo a noi, cioè al Rinascimento. Ho definito francesizzante Milano perché pochi anni dopo Luigi XII re di Francia si attribuì il titolo di duca di Milano di cui si considerava discendente per ramo femminile e, differentemente dal suo predecessore Carlo VII, alle spiagge assolate del meridione preferì il fascino della nebbia padana, volendo assicurarsi il dominio su tutta l’Italia settentrionale. S’impadronì dunque di Milano e costrinse Ludovico il Moro a fuggire e a rifugiarsi presso l’imperatore Massimiliano. Successivamente il Moro tentò di riconquistare i suoi domini ma fu sconfitto, agli albori del nuovo secolo, dai mercenari svizzeri e fu fatto prigioniero a Novara. Condotto prigioniero in Francia, relegato allo stesso destino ch’egli aveva imposto, tempo addietro, al nipote Gian Galeazzo, vi morì, esule, nel 1508. Della serie, chi la fa, l’aspetti.

Alcuni mercenari svizzeri s’impadronirono dei territori che erano stati di Ludovico, Lugano e Bellinzona, e formarono così il Canton Ticino che poi sarà unito alla Confederazione Elevetica.

leonardo

E Leonardo? Il fiorentino che tanto aveva amato Milano, che ivi aveva dipinto, sempre commissionato dal duca Ludovico (cinico sì, ma d’altissimo senso estetico), il memorabile affresco dell’Ultima Cena nel convento di Santa Maria delle Grazie, divenne amico del nuovo re di Francia, Francesco I. Il re aveva infatti vinto gli svizzeri e si era preso parte dei loro possedimenti, ma, sconfitto da Carlo V, era stato costretto a ritirarsi nella sua terra natia. Leonardo, disgustato dalla bramosia di eredità dei fratellastri, aveva deciso di rinunciare all’esigua parte che gli sarebbe spettata per diritto ed aveva acconsentito a seguire Francesco in Francia, dove visse fino ai suoi ultimi giorni, spegnendosi, come volle il Vasari, tra le braccia di Francesco stesso (lo spirito suo, che divinissimo era, conoscendo non potere avere maggiore onore, spirò in braccio a quel re). Forse per voler del destino, o più semplicemente per l’umana ed incontrollata follia, il più grande maestro di tutti i tempi non ebbe degna sepoltura. Spentosi all’età di sessantasette anni ad Amboise, il fiorentino fu sepolto in una piccola e regale cripta, Saint-Florentin ma della sua sepoltura, oggi, nulla rimane. Le sue ossa furono disperse, assieme ad altre di religiosi e principi. Alcuni dicono che le cause dello scempio furono i disordini religiosi tra cattolici e ugonotti, altre voci, forse più fondate, le attribuiscono ai rivoluzionari francesi che in nome della loro farneticata uguaglianza mal potevano tollerare simboli di potere e religiosità. Ma, io credo, che come tutti i grandi uomini che ci hanno preceduti, che egli sia rimasto, eternato, nelle sue mirabili opere. Non in terra essi riposano, ma nell’infinita immensità della bellezza che fu lor propria.

Chantal Fantuzzi