Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo articolo, che non impegna la redazione. Osserviamo che la “soluzione” della sinistra è sempre la stessa: un incremento quasi ossessivo della macchina statale, dei controlli e della burocrazia.

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Sono passati pochi mesi dalla votazione attorno all’iniziativa “Basta con il dumping salariale in Ticino” proposta dall’MPS e già si intravvedono i danni arrecati dalla sconfitta (seppure di misura) dell’iniziativa e dall’approvazione dell’inconsistente controprogetto proposto da governo e appoggiato da tutti gli altri partiti.

Ci riferiamo a quanto sta emergendo, in termini di gestione del mercato del lavoro e di rispetto delle condizioni salariali e di lavoro, nell’attuale inchiesta sui falsi permessi che coinvolge il Dipartimento di Norman Gobbi.

Lo sviluppo dell’inchiesta mostra, qualora fosse stato necessario, come la politica dei permessi ha come epicentro le condizioni di lavoro e il tentativo, attraverso una politica dei permessi (compresa la loro contraffazione), di sfuggire al rispetto delle regole – seppur limitate – al rispetto delle condizioni di lavoro e di salario esistenti.

Una politica di polizia, incentrata sul controllo della assegnazione dei permessi per i lavoratori stranieri, non permette in nessun caso di controllare che questi salariati siano poi inseriti in un contesto corretto dal punto di vista delle condizioni di lavoro e di salario e che non diventino strumenti, inconsapevoli o meno che lo siano, di una politica di dumping salariale e sociale.

La iniziativa “Basta con il dumping salariale” voleva, attraverso un  monitoraggio constante del mercato del lavoro fornire proprio gli strumenti per la lotta al dumping salariale e sociale che, ancora una volta, questa vicenda dei falsi permessi sta mettendo in rilievo.

L’iniziativa chiedeva l’obbligo della notifica di tutti i contratti di lavoro stipulati e, soprattutto, un potenziamento importante delle misure di controllo, a cominciare dalla dotazione di un numero cospicuo (uno ogni 5’000 attivi in Ticino) di ispettori del lavoro.

La maggioranza del governo e dei partiti ha convinto la popolazione ticinese che tale proposte era esagerata, sostenendo che un numero limitato di ispettori sarebbero stati sufficienti a garantire il controllo delle condizioni di lavoro e la lotta al dumping nei settori non coperti da contratti collettivi di lavoro (CCL) dichiarati di obbligatorietà generale, affidandosi (e proponendo di sostenerle anche finanziariamente) alle commissioni paritetiche di questi settori contrattuali.

La vicenda dello scandalo dei permessi ha portato in luce proprio uno di questi settori nei quali vige per l’appunto un CCL  dichiarato di obbligatorietà generale, con una corrispondente commissione paritetica. Ma le vicende che stanno emergendo conferma quello che l’MPS aveva sempre sostenuto: che queste strutture, per ragioni diverse, non sono in grado di effettuare un reale monitoraggio delle situazione e di perseguire il dumping salariale e sociale.

Questa vicenda mostra, ancora un volta, la necessità di una svolta decisiva nella lotta al dumping; svolta che non può venire dalle inconsistenti e xenofobe proposte del tipo “prima i nostri”; ma da un potenziamento del controllo del mercato del lavoro, così come preconizzato dall’iniziativa e dalle proposte che, da tempo, l’MPS continua presentare.

Lo scandalo dei permessi e delle ricadute sociali (salari, lavoro nero, mercato del lavoro, etc.) mostra di fatto una connivenza – perlomeno indiretta e colpevole – del potere politico ed amministrativo nei confronti delle aziende e della loro logica concorrenziale, fondata su una diminuzione sistematica dei salari ed un peggioramento delle condizioni di lavoro per tutti, svizzeri e immigrati.