di Vittorio Volpi

Dalla successione al padre nel 2011, con molto show e clamore mediatico, Kim Jong-un ha per la prima volta incontrato Vladimir Putin a Vladivostok, all’estremità della Russia Asiatica, non lontana dal confine della Corea del Nord.

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Lecito domandarsi come mai, dopo 8 anni, la visita di stato avvenga solo ora. A maggior ragione, considerando il ruolo che l’URSS ha giocato nel sostenere la Corea del Nord nel periodo cruciale del confronto Nord-Sud della penisola coreana, fornendo consiglieri militari, supporto logistico, armamenti.

Si sa che una sola spiegazione non basta mai e mai come in questo caso. I nord coreani, dal nonno Kim Il-sung (il monarca rosso e grande leader) in poi, sono dei campioni di furbizia. Nonostante abbiano combattuto la guerra civile (1950-53) con l’appoggio russo e cinese, sono sempre riusciti a tenere i loro alleati fuori dalla porta di casa. Niente basi militari concesse, nessuna presenza diretta dei partners sul territorio. Un capolavoro di diplomazia per mantenere la totale indipendenza e fedeltà al loro mantra della “juche” (autarchia, autosufficenza, patriottismo, tradizionalismo, marxismo, leninismo).

La caduta del muro di Berlino, la tremende vicissitudini del passaggio URSS- Russia, hanno contribuito a mantenere nella naftalina i rapporti fra due paesi.

Ma ora le cose sono cambiate. La Russia di Putin è anche grande potenza geopolitica euro-asiatica, la sola; con lo “zar” ha riguadagnato dignità e rispetto internazionale, si è avvicinata alla Cina e, come si vede in medio-oriente, è una voce che conta.

Di recente i due incontri con Trump non hanno contribuito a nessun passo avanti. Gli americani, che negoziano ingenuamente da soli, insistono sulla totale denuclearizzazione della penisola coreana in cambio dell’eliminazione totale delle sanzioni economiche alle quali anche la Russia partecipa. Ma Kim, ed il suo entourage, hanno capito che per ottenere un riconoscimento vero della loro esistenza ed una protezione da eventuali attacchi una volta eliminata l’arma atomica, non basterebbe la promessa americana. Vogliono, a Pyongyang , un patto consolidato che includa, oltre alla Cina, la Russia. Addirittura, come già discusso in passato, occorrerebbe anche il riconoscimento della Corea del Sud e del Giappone oltre naturalmente agli Stati Uniti.

Kim, con grande astuzia, con questa ultima mossa ha rimesso la palla al centro; alle bombe nucleari, lo “stato eremita” ci è arrivato con sforzi immani di decine di anni. È la carta vincente che non si intende giocare se non ci sarà una Posta in palio di alto valore. Per ottenere quello che vuole, Kim ha ora anche bisogno di un vecchio partner che addestrò e sostenne suo nonno durante il periodo della guerra clandestina contro Il Giappone coloniale e che occupò la Corea fino al ’45.

Detto ciò, l’incontro con Putin, giudicato da quest’ultimo di grande successo, ha raggiunto lo scopo. Brindisi, caviale, ravioli di carne – che Kim adora – e parole al miele. Putin: “Parlerò con Washington del problema trasferendo i messaggi di Kim”. Dal canto suo, il maresciallo Kim, ha lodato l’importanza di Putin e di Mosca, come “peso massimo” nella geopolitica internazionale.

A latere il folklore che sempre circonda il dittatore Kim nei suoi viaggi. È arrrivato a Vladivostock con un treno blindato, seguito in diretta dalla televisione russa. Tappeti rossi con i suoi guardiani che puliscono all’esterno il treno appena arrivato.

Poi autoblindata con le sue guardie del corpo che corrono a fianco di cui tre con misteriose valigette. Kim – come una caricatura, indossava un cappotto nero stile anni ’50 preso forse dall’armadio del nonno, ed un feltro nero a larghe tese. Una battuta di folklore quasi umoristica. Loda il paese e il compagno Stalin che scelse e protesse suo nonno.

In politica la storia conta e in Nord Corea hanno la memoria lunga.