Avete mai indagato il Novecento in un solo libro? Il saggio di Jelena Radojev fa al caso vostro
Curato da Paolo Briganti, docente di Letteratura Italiana Contemporanea all’Università di Parma, il saggio è soprattutto un’analisi delle nevrosi, più o meno gravi, che caratterizzano i caratteri-simbolo del Novecento: Zeno, Mrs Dalloway, Maurice, ognuno con una “malattia” diversa, eppure tutti legati dal fragile filo di quell’equilibrio che nella stessa Jelena Radojev alla fine si è spezzato. Briganti cura e raccoglie la fine eredità della studiosa slava, italianista, comparatista e studiosa di filosofia e di musica tra Parma e Cremona, il cui multiforme talento ha finito per soccombere al grigiore di una crudele e incomprensiva contemporaneità; talento che ora però, grazie alla pubblicazione del suo saggio, si sprigiona nitidamente, nella sua precisa e concisa eppur scorrevole indagine di quella neonata modernità che ha cambiato per sempre la letteratura contemporanea.
Chissà se i personaggi che scegliamo di studiare sono/siamo anche un po’ noi stessi. Per Jelena Radojev sicuramente è stato così, almeno in parte. Il saggio In una rete di fili che si intrecciano – Sintomi dello squilibrio nel romanzo modernista (titolo polisemico, di cui diciamo più avanti) si risolve, attraverso tre romanzi, in una serrata analisi del Romanzo di Primo Novecento, un’epoca scarna di linee guida valoriali, ma non del tutto ignara, al contempo, di un’eredità classica perduta, di cui però sopravvive almeno il ricordo. A tal proposito infatti Jelena apre il suo saggio con la citazione nientemeno che del filosofo Eraclito, il cui principio del mondo, il fuoco, si accende e si spegne katà metron, con misura, mentre nell’epoca contemporanea, fragile e densa di poliedriche visioni, non resta, come dice la Radojev stessa, che “un ricordo incerto, la storia frammentaria di un abbandonato metro”. Jelena prende dunque ad indagare alcuni dei personaggi più emblematici, esponenti della diffusa nevrosi primonovecentesca, scaturiti dalla visione geniale e demistificatrice di scrittori quali Svevo, la Woolf e Forster.
Zeno è considerato dalla Radojev quale implicita maschera della “crisi” d’un primo Novecento spaesato, epoca ormai lontana sia dalle correnti portanti del “bell’Ottocento” (romanticismo, realismo, positivismo) sia da quel secolo XX che, allora, era appena iniziato e dunque doveva ancora quasi interamente realizzarsi. Una serrata indagine, su basi fondamentalmente psicanalitiche, dentro la nevrosi, a partire dal convincimento ossessivo di Zeno che quella sigaretta possa essere ogni volta l’ultima (tanto da scrivere sul muro una data ogni volta diversa del proposito di smettere), al giustificazionismo estremo dell’“altalena sentimentale” che il protagonista stesso istituisce tra la moglie e l’amante, equiparabile all’auto-convincimento forzato, eppur casuale, nella scelta della moglie, la più insignificante tra le sorelle Malfenti, quella ch’egli d’acchito aveva apprezzato di meno. Zeno è un inetto, sì – e per alcuni un malato immaginario –, che pretende di auto-curarsi con propositi controproducenti e ciclicamente inconcludenti; e lo sguardo della Radojev si aggira attento, soffermandosi sui particolari più rilevanti per indagare quel male, per il quale la saggista non esita a scomodare, grazie alla propria preparazione, Freud e alcuni romanzieri “psicanalisti”, pioneri nell’indagine della mente, come Groddeck o Ferenczi, molto vicini a Svevo anche grazie alla “latitudine viennese” più o meno coeva.
Poi l’analisi sull’innovativo romanzo di Virginia Woolf, Mrs Dalloway, la cui trama si svolge in circa dodici ore d’una giornata, trascinando con sé la “vita vuota” di due personaggi in una giornata londinese: il reduce di guerra Septimus Warren Smith, traumatizzato dalla Prima Guerra Mondiale (il cui sfacelo è tuttavia descritto solo – come nota acutamente la Radojev – nelle aiuole dei gerani danneggiate dai bombardamenti) e la signora Dalloway che riempie la sua vuota vita di feste ostentatrici di bellezza e armonia (quasi “un omaggio al mondo”). Ancora una volta l’occhio attento della Radojev si aggira tra i salotti londinesi, cogliendo il vuoto di quell’alta borghesia ormai inerme di fronte alle nevrosi e psicosi fuoriuscite dal vaso di Pandora nel quale sino ad allora erano state sempre serrate (o forse solo misconosciute).
Infine, l’omosessualità come prigionia di un’anima: quella di Maurice, scaturito dalla penna di Forster e, per volontà dell’autore, mai pubblicato in vita (uscì infatti solo postumo), per una strenua difesa della libertà individuale: si ricordi che in Inghilterra l’omosessualità fu reato punibile col carcere sino al 1967! Maurice – il protagonista eponimo – vive con le medesime sofferenze d’ogni innamorato la propria relazione omosessuale con Clive, quando questi decide di sposarsi con una donna. Jelena nota come Maurice, per spiegare la propria condizione di non-eterosessuale al medico psicologo, incappi nella scoperta d’una società che chiude gli occhi di fronte alle diversità, in una sorta di rassicurante ed autoreferenziale quanto nociva “autodifesa”. Per chi invece, come Maurice, “non chiude gli occhi né il cuore” e decide di accettarsi e di proseguire, resta un finale dubbioso e non pacificante; come, del resto, tutt’altro che pacificante è la conclusione degli altri due romanzi.
Jelena Radojev, nella sua acuminata indagine, grazie alla preparazione in materia letteraria e psicanalitica, si sofferma anche sulle metodologie mediche di guarigione prese in considerazione nei tre romanzi, metodologie del tutto inadeguate e ovviamente infruttuose. È difficile comprendere, e fa soffrire, la sofferenza che identifica un secolo, lo inaugura e ancor non l’abbandona, ma il saggio della Radojev lo fa con finezza e, nonostante i temi trattati, non è mai pesante, anzi: lo caratterizza una distaccata introspezione, che può essere persino utile strumento d’indagine e comprensione delle nevrosi per il lettore che voglia addentrarvisi, magari senza troppe illusorie mire di radicale guarigione, semmai solo di più raffinata e profonda conoscenza di sé. Lo stesso Svevo ebbe a dire del resto che, a suo avviso, la psicanalisi freudiana era uno straordinario strumento ispettivo per i letterati, pur se fallimentare quanto a terapia. Neppure Jelena, alla fine, sembra essere sfuggita a tale doppia considerazione, col suo acuto e sensibile saggio da un lato, e col suo personale esito biografico, che – come nota Briganti – può apparire un estremo omaggio imitativo all’amata Virginia Woolf, a testimonianza di tutte le umane fragilità che, per i più sensibili, producono talvolta un invivibile inferno.