Dal 2015 in Ucraina, le forze di opposizione al governo di destra, guidato dal 2019 da Zelensky – socialiste, comuniste, antifasciste, pacifiste, per i diritti umani – vengono messe fuori legge. In particolare, una legge varata il 16 dicembre 2015, equipara il comunismo al nazismo: di conseguenza, il Partito Comunista d’Ucraina è stato messo al bando dall’allor Presidente Petro Poroshenko.

La Rada, il parlamento ucraino, ha inoltre vietato l’utilizzo di simboli comunisti, con il rischio di pene che possono arrivare fino ai 10 anni di carcere.

Un anno prima, nel 2014, il partito nazionalista di estrema destra Svoboda ottenne 6 seggi dai collegi elettorali, ricevendo ben il 4,71% dei voti. Fu certamente l’influenza di Svoboda a vararele cosiddette ““leggi di de-comunistizzazione”, anche se, poiché il partito non raggiunse la soglia minima del 5%, i ministri si dimisero nello stesso anno.

Negli stessi anni, quindi, il Partito della Sinistra Europea (SEL) chiese all’Unione europea di condannare i provvedimenti ucraini anticomunisti, seguita da Amnesty International, ma il Tribunale amministrativo distrettuale di Kiev altro non fece che accogliere la richiesta del Ministro della Giustizia ucraino di vietare il Partito Comunista. Conseguentemente, il 20 marzo 2022, Zelensky ha annunciato la decisione di sospendere l’attività di altri 11 partiti considerati “filo-russi” (oltre al Partito Comunista d’Ucraina). Sono, sostanzialmente, tutti partiti progressisti di sinistra, tra i quali si distinguono alcuni partiti filo-russi.

Balza all’occhio la contrapposizione tra il nazismo insito nel battaglione Azov, paramilitare che combattono sotto le bandiere ucraine, e il divieto al “comunismo” dei partiti, in un Paese democratico.