Forse molti di voi già sanno che la Porta della Pescheria del Duomo di Modena è un raro esempio di ricezione delle leggende arturiane in Italia, recando essa il bassorilievo dei Cavalieri della Tavola Rotonda, di Artù, Lancillotto e Ginevra, e risalendo tale opera probabilmente attorno al 1138, ovvero vent’anni prima che Geoffrey of Monmouth pubblicasse la sua History of The Kings of Britains. Risale a circa quarant’anni dopo il mosaico del pavimento della Cattedrale di Santa Maria Annunziata di Otranto, che reca un soggetto analogamente arturiano. Artù e il ciclo bretone non è, quindi, un soggetto così estraneo alla cultura italiana, se si conta la profonda conoscenza di Dante Alighieri del ciclo bretone (nella Commedia il Sommo Poeta cita Ginevra, Lancillotto – nel celebre Canto V dell’Inferno, ma anche Artù e il suo traditore Mordred, e, più avanti ancora, di nuovo Ginevra, mentre in un Sonetto dedicato a Guido Cavalcanti immagina, assieme all’amico Lapo Gianni di solcare la barca di “Merlin l’incantatore”). 

Tuttavia, immagino che ben pochi tra voi sapranno dell’esistenza di un poema, di circa 4mila versi, conosciuto con il titolo accademico di “The Alliterative Morte Arthure”, scritto da mano anonima ed esistente soltanto in un’unica copia conservata nella Cattedrale di Lincoln, scritto attorno all’anno del Signore 1400, che narra delle imprese di Re Artù… in Italia. 

Proprio così, avete letto bene: un tassello del mare magnum arturiano, colloca il leggendario sovrano britannico (che alcuni recenti e autorevoli studi certificano tuttavia essere realmente esistito attorno al V secolo nella Britannia abbandonata dalle aquile romane), in Italia. 

Recentemente tradotto dallo scrittore e poeta inglese Simon Armitage, il poema, scritto in “middle-english” uno stile molto vicino alla poesia allitterata anglosassone, vede Artù, re di Britannia, venire sfidato da Lucius, imperatore romano, che gli contesta il dominio dell’Isola. Artù, allora, accoglie la sfida e marcia per sconfiggere Lucius. Affida la sua regina Ginevra a Mordred quindi, parte – assieme ai suoi valorosi cavalieri, quali Lancillotto e Gawain e molti altri – per il Continente. Il re di Britannia conquista Metz, poi Como e Milano, a Genova incontra e sconfigge dei giganti cannibali (in inglese Genoa e Giants hanno una pronuncia molto simile) quindi conquista tutta la Lombardia, la Toscana ed infine Roma, dove il Papa fa atto di sottomissione, riconosciutolo come legittimo re. Proprio qui, però, Artù apprende del tradimento di Mordred che ha sposato Ginevra e si è dichiarato re di Britannia. Inizia così la marcia a ritroso, Artù sbarca in Cornovaglia e sconfigge Mordred, nella fatale e sanguinosa battaglia che vede sia il re sia l’usurpatore morire. Prima di spirare, Artù affida la propria vita a Cristo e auspica che il destino di Ginevra possa “fiorire”. 

Quindi, l’autore conclude pronunciando la celebre frase associata ad Artù descrivendolo, ovvero, come il “re una volta e re in futuro” (ovvero the once and future King – che sarà poi il titolo anche di un famoso romanzo di T.H. White pubblicato nel tardo ‘900). 

Anche se L’Alliterative Morte Arthure prende senza dubbio spunto dall’ Historia Regum Britannie di Geoffrey of Monmouth, in questo poema non c’è Merlino, non c’è Morgana, Mordred non è figlio di costei e di Artù, Ginevra non ha una relazione amorosa con Lancillotto… Tutti elementi, questi, che verranno aggiunti da Thomas Malory che pochi anni dopo, nella sua prosa “La Morte Darture” ricapitolerà i vari elementi del mito e che Chretien de Troyes, in parte, aveva già inserito nel suo ciclo del XII secolo (che Dante, per l’appunto, conosceva). 

Un poema, L’Alliterative Morte Arthure, senz’altro misterioso e intrigante che soprattutto connette Artù con la nostra penisola. 

Edward Burne Jones – l’ultimo sonno di Artù, 1898