2016

Si incontrarono a San Pietroburgo nel 1892. Lei, talentuosa al punto da essere definita “Rembrandt russo”, si innamorò presto delle doti di lui. Tanto che, convinta che una rivoluzione artistica non si addicesse a una donna, smise per dieci anni di dipingere, facendo di sé la sua musa ispiratrice. Si promisero amore dinanzi al padre di lei, generale comandante della fortezza di Pietro e Paolo, si amarono a Monaco come ad Ascona, dove si lasciarono dopo ventinove anni: la giovane donna, che era governante per lei, era pure modella e amante per lui. Oggi, Marianne Werefkin e Alexej Jawlensky si ritrovano, scatenando la stessa carica emotiva di allora, in una stanza di Palazzo Reali, dove è in mostra “In Ticino. Presenze d’arte nella Svizzera italiana: 1840-1960”.

JawlonskiEntrando in questa stanza d’arte, d’amore, e d’amore per l’arte, ci si imbatte subito in un volto di forte impatto: è una delle Teste astratte di Jawlensky, specchio dell’anima rappresentato da colori di una carica espressiva fuori dal comune. I volti sono il prodotto degli anni di Ascona, centro culturale infermento negli anni Venti. Del periodo sul lago Lemano sono invece le noteVariazioni, serie di opere dedicate al paesaggio dove forme semplici e stilizzate si fanno sempre più astratte e geometriche. La prima guerra mondiale incombe e Jawlensky vuole esprimere una ricerca forsennata di consolazione in Dio.

La spiritualità trova forme ben diverse in Marianne Werefkin. La sua aspirazione è entrare nella vita vera, indagando le emozioni più profonde, la gioia sì, ma anche il dolore. Soprattutto quello. “È passando attraverso sofferenze personali – dice – che noi artisti dobbiamo riappacificarci con la vita e accettarla in tutte le sue forme. Elevandoci al di sopra delle macerie della nostra esistenza, per gli altri dobbiamo creare il tempio della fede e della speranza, a questo siamo destinati. Al di fuori di questo, l’arte è soltanto un gioco”.

Werefkin xNon gioca affatto Werefkin che, figlia dell’aristocrazia russa, si fa portavoce dell’emancipazione del popolo al margine della società: servi, neri, ebrei. Non teme di affrontare problematiche spinose, alla ricerca di un riscatto sociale. Così porta la sua pittura su due fronti. Uno umanitario, che la vede dalla parte degli umili (La città dolente, Vivi e morti, Turno di notte). L’altro visionario e mistico (Fuochi fatui, Ave Maria) dove trova riconciliazione con un mondo che non accetta. I colori gridano, la luce s’infiltra potente e talora si mette in ombra. Così i paesaggi di Werefkin diventano un racconto di paesaggi interiori, storie di emozioni. Storie di speranza, a questo è destinata.

Nataliya Shtey Gilardoni