di Vittorio Volpi
Di recente è sempre più vivace l’interesse per il Giappone. Sento molti conoscenti che ci sono appena stati o programmano di visitare il Paese del Sol Levante. Chiedo quindi a chi ha già fatto l’esperienza che cosa li ha più colpiti, che lezione abbiano appreso e se ci ritornerebbero.
Mi sorprende sempre, al di là degli stereotipi (le persone sono gentili, tutto pulito, non ci sono questuanti, non si usa dare la mancia, etc.) che pochi sembra abbiano fatto delle esperienze al di là della superficialità, cioè un po’ più in profondità .
Prima di affrontare il Giappone peraltro, meglio sapere, come scrisse Francesco Saverio alla metà del 16mo secolo (lasciò il Giappone nel 1551) che “Il Giappone è un mondo alla rovescia”. Scriveva il Padre che invece di usare coltello e forchetta, maneggiano magistralmente delle bacchette di legno così da poter raccogliere anche un chicco di riso. Poi si legge da destra a sinistra, dall’alto in basso. Una lingua resa tanto complicata da convincerli che sia improbabile per gli stranieri capirla. Una “grande muraglia” che esclude i non-giapponesi dal loro mondo. E poi, invece di salutarti stringendo la mano, fanno un inchino, il contatto fisico non è gradito. E tante altre abitudini agli antipodi rispetto all’Occidente.
Insomma, nei 2700 anni di storia di isolamento, si sono creati una loro cultura e società, spesso così lontana da quella occidentale. L’individuo poi è sfumato, lasciando posto al gruppo, conta di più il legame di gruppo che di sangue. Una delle tante spiegazioni che gli antropologhi azzardano è che la “coltura del riso” e l’isolamento li ha forzati al compromesso (per avere l’acqua, indispensabile per il riso) a collaborare, ad agire in comunità. Il Giappone è un arcipelago, non un continente. La via di fuga non c’è. Intorno all’arcipelago c’è solo oceano….
Per nostra fortuna, ci sono alcune cose che aiutano a comprenderli meglio e che si possono fare durante le nostre visite. Vediamone alcune.
Assistere, ad esempio, ad una partita di baseball, oggi loro grande sport. Il clima nello stadio è così diverso da un incontro di calcio a S.Siro. Non urlano, non si agitano, bevono il te e mangiano degli snacks. Vedere per capire. Non si avverte il pathos – a noi così caro e congeniale – manca la tensione, in esubero da noi.
Poi il “Sumo”. Uno spettacolo straordinario. Incarna una tradizione secolare immutata nei riti e canoni che è bello vedere. Ci sono 6 tornei all’anno di cui 4 a Tokyo. Ogni torneo dura 15 giorni. Dei colossi si affrontano, in apparenza obesi, ma in pratica molto atletici (un ossimoro?)
Vince chi ha vinto più incontri diretti, normalmente uno Yokuzuna – “grande campione”. Il pubblico si infiamma per sostenere i suoi campioni che si preparano all’incontro gettando sale sul ring, che è rotondo e di sabbia, dandosi delle gran pacche sui fianchi prima di scontrarsi. Degli omoni che addirittura in qualche caso, superano i 200 chili di peso.
Il Sumo, pluricentenario, è seguito in diretta ogni giorno dalla NHK (televisione nazionale) e questo rende l’idea di quanto sia radicato e popolare nell’animo del giapponesi. Nota interessante: da anni vincono lottatori stranieri…come nel torneo finito pochi giorni fa. Ha vinto Hakuko, (nato in Mongolia) , non giapponese, un campione che passerà alla storia per il numero delle sue vittorie.
Altro “must” da non mancare è il teatro Kabuki. Altro aspetto di una tradizione centenaria che è sempre viva e che ci trasmette la storia del paese e l’anima degli abitanti del Sol Levante.
Ho visto ieri al teatro del Kabuki di Tokyo tre storie splendide. Tutte sempre legate a fatti storici accaduti, umani, ma anche con intrecci sciamanici. Il bene e il male che lottano, diavoli, spiriti, reincarnazioni, amori, vendette. Tutto quello che succedeva e succede; ed una fine felice o tragica , ma spettacolare.
Il dramma più celebrato è certamente “Chushin gura”, la vendetta per il loro Lord dei 47 “ronin” (samurai senza più capo). La tragicità storica dell’evento realmente accaduto si conclude con i ronin che si tolgono la vita.
Il Kabuki è la somma di tre ideogrammi: KA per canto, BU per danza, KI per abilità. La loro somma: recita, ballo e canto compongono la “pièce”. I costumi, le scene, le recitazioni sono veramente uniche e fantastiche. Il coro, come nella tragedia greca, accompagnato da tamburi, flauto e “shamizen” (strumento a 3 corde) dà intensità alla recitazione. La commedia o dramma ha un narratore che consente allo spettatore di capire alcuni passaggi della storia. Il tutto con un’esplosione di colori, di costumi magniloquenti, sottolineati da una recitazione che riassume secoli di esperienza. Ha un codice genetico che non dà spazio all’improvvisazione. Così deve essere.
Gli attori sono solo uomini, alcuni di loro si sono specializzati in ruoli di “onnagata”, cioè femminili; e sfido chiunque a capire se siano uomo o donna!
Veramente, vedere il Kabuki è un’emozione che ci fa capire quanto simili siamo alla fine. Anche se, alcuni valori, come la lealtà, la vendetta, la compassione, siano molto più pronunciati rispetto a noi in certe situazioni.
Nella recitazione i gesti e le espressioni degli attori, spesso successori per generazioni di altri famosi antenati, mostrano in pieno, con il viso e la mimica, le emozioni che noi stentiamo a vedere sui volti della gente comune nella vita quotidiana.
Quello che suggerisco a chi si appresta a visitare il Giappone è di fare uno sforzo nel prepararsi bene e pianificare cose che vadano al di là della visita di qualche tempio, mangiare il sushi e fare dello shopping.
Partecipare alle cose che amano i giapponesi equivale ad entrare un po’ nel loro mondo esclusivo.