Recensione a cura di Desio Rivera del film proiettato in Piazza Grande al Locarno film festival

The seed of the sacred Fig / Iran (I semi del fico sacro)

R. Mohammed Rasoulof
Versione in lingua farsi con sottotitoli in tedesco e inglese.

Eh si, anche qui, niente sottotitoli in italiano!

Ricorderete tutti che il regista ha dovuto scegliere: andare in prigone o scappare dall’Iran. Con la morte nel cuore, ha scelto l’esilio. Era a Cannes questo anno, a maggio, per la presentazione del suo film premiato con una menzione speciale.
Tutto l’inizio del film, con riferimento al decesso di Mahsa Amini e le proteste che ne sono seguite a Teheran, è una carrellata sulle immagini da telefonino e donne in strada come quelle viste, e che vediamo, nei servizi passati nei nostri telegiornali. Slogan “Donne, vita, libertà” compreso. È dal 2022 che queste proteste fanno sembrare l’Iran pronto ad una rivoluzione, ispirata dalle donne (in Iran molto più istruite dei maschi), contro quella realtà patriarcale, misogina e fatalista (la volontà di dio…) ma che, per il momento, solo tanto rumore, tanta empatia, tante vittime innocenti e, tuttora, solo a massacri e parole. Noi, da lontano, osserviamo e non facciamo nulla.

Queste immagini sono viste sul telefonino dalle figlie di Iman, papà protagonista del film. Loro due, Rezvan e Sana, come tutti le giovani e i giovani iraniani, si scambiano le informazioni di ciò che veramente accade e sanno che quello che racconta la loro TV è falso. Iman, il padre, è giudice istruttore presso la Corte rivoluzionaria di Teheran e, per questo, situato nella classe agiata e con una vita riconoscibile e simile a quella borghese della nostra classe medio-alta.

Il regista Mohammad Rasoulof

Le proteste nel paese coinvolgono emotivamente la famiglia. Figlie consapevoli e critiche verso la repubblica islamica sciita, con costituzione che si ispira alla legge coranica (shari’a) dove vivono e, da donne, subiscono, affrontano, polemiche e aggressive, il discorso con mamma Najmeh e papà Iman.

C’è la nomina del padre, un avanzamento di carriera, apparentemente portatore di benefici finanziari  ma che, da subito scopriamo, costringe il padre, Iman, ad istruire i dossier che il procuratore userà per le sue ingiuste sentenze di morte. E lui, inizialmente, mostra insofferenza e sentimenti di colpa per quelle firme che appone sulle “prove” che permettono al potere di mantenere un regime di terrore e oppressione.
Poi, dalla sua casa, sparisce la sua pistola. E tra le mura domestiche, lui, investigatore, indaga tra i sospetti: sua moglie e le due figlie. Ed è una lunga e noiosa sequenza, questa parte centrale del film, veramente tirata troppo alla lunga, su questa sparizione della pistola, che toglie interesse e attenzione alle immagini sullo schermo Poi inizia la parte finale del film dove il marito si trasferisce (scappa) tra le montagne nel suo villaggio dove nacque. E qui, quell’uomo che per alcune sequenze iniziali, sembrava una persona capace di critica razionalità e avversione alla mentalità oppressiva/religiosa imperante,  si rivela il maschio padre padrone difensore dell’Iran così come è, diretto dagli ayatollah e legato a tradizioni e mentalità fondamentaliste. Adotta misure drastiche tra le mura domestiche e le norme sociali e familiari si dissolvono.

Non mi è piaciuto molto e le sequenze finali con folle di donne che protestano con veemenza e indisturbate per le vie di Teheran come se la rivoluzione sia cosa fatta, mi hanno lasciato perplesso. I nostri telegiornali ci riferiscono fedelmente cosa sia la realtà dell’Iran. Ben lontana da quelle immagini di positività e speranza con le quali il regista termina il suo film. 
Ma, gli auguro, che sia una visione profetica. A volte, anzi, spesso, gli artisti le hanno.

Concludo questa mia ennesima recensione con una mia nota sul Locarno Festival. No, non vi parlerò delle voci su spostamento di date e delle oggettive difficoltà di arrivarci. Per me, va benissimo sia che lo mantengano alla stessa data, lo facciano prima o lo facciano dopo. L’esigenza è di non sovrapporlo agli altri grandi festival e dargli ulteriori possibilità, se le date attuali di agosto non risultano l’ideale, per renderlo ancora più visibile e importante. L’essenziale è che ci sia e che Locarno sia centrale.

Vi sottolineo sempre, per le proiezioni al grande pubblico pagante della Piazza Grande, la mancanza di sottotitoli in italiano. Per un festival con ambizioni di sempre maggior respiro internazionale ma con la forza delle radici che lo legano al nostro territorio (Raphaël Brunschwig, quasi sicuro futuro Ceo – dixit), la totale assenza della lingua italiana in sotto- o sovra-titoli per tutti i film stranieri presentati sulla Piazza, non è degno della presunta volontà di partecipazione e condivisione con il Ticino e con il pubblico locale. È vero che noi ticinesi abbiamo la fama (ed è praticamente un obbligo in una patria trilingue) di essere plurilingue. Ma, secondo me, sottotitoli in italiano sul grande schermo di Piazza Grande, sarebbero il segnale che il festival è nostro, non nel senso solo di svizzero, ma evidentemente nostro per parto e tradizione di questo Ticino, regione di lingua italiana.