Alberto de Marchi –

Il titolo certo sarebbe potuto essere meno à la “ho provato ad essere simpatico”, tanto più che, al netto della citazione parziale della celeberrima filastrocca, in camera mia non è presente alcun comò, bensì un comodino; e però, essendo la realtà e i suoi contrari così strettamente legati, nel romanzo cui inizierò a breve a fare cenno, fino a non comprenderne più la distinzione, mi sento già meno in colpa.

Il caso letterario di cui all’intitolazione del pezzo è Le 12 civette (Polidoro Editore, Napoli 2024, 596 pagine, 20 euro), autrice la misteriosa Juliette Evola, la quale si presenta (e viene presentata, nella Prefazione ad opera di Diego Fusaro) come una maestra elementare – con già alle spalle alcune prove poetiche e d’ambito teatrale – in pensione con la passione per magia ed esoterismo dalla vocazione mitteleuropea, essendo praghese di nascita ma triestina d’adozione. Quanto al nome, che certo deve aver fatto drizzare le antenne a più di una persona, non ci è dato – perlomeno non del tutto – sapere se sia semplicemente de plume oppure se effettivamente, l’autrice in questione, possa vantare tra i propri ascendenti il celeberrimo pensatore tradizionalista siculo-romano.

Le 12 civette, a mio avviso, mette in risalto un fatto del quale forse non tutti siamo ancora consapevoli: quello di aver vissuto un vero e proprio passaggio storico, cosa che potrebbe chiamarsi anche cambio di paradigma, la pandemia di Covid-19. Sì, perché la Storia non si sostanzia soltanto nei fatti accaduti decine, centinaia o migliaia di anni fa, lo è già anche quanto accaduto appena cinque anni or sono. E infatti, le vicende narrate tra le pagine del corposo romanzo, si svolgono tutte nel lasso di tempo compreso tra il 31 gennaio 2020 e l’ultimo giorno di quell’annus horribilis (cui, peraltro, ne seguì un altro, aggettivabile alla stessa maniera).

Juliette Evola non fa mancare proprio nulla alla resa romanzata di quelli che tranquillamente potrebbero essere eventi e fatti realmente accaduti in quest’epoca (che, in verità, perdura da ben prima del 2020) di decadenza: allarmismi estremistici o negazionismi altrettanto estremi; fede cieca nella scienza (che pretende di essere portatrice di dogmi al pari delle fedi religiose) o rifiuto palese di ogni cosa abbia il crisma della scientificità; politicizzazione “obbligata” di ogni minimo aspetto dell’esistenza (modalità che ha molto il sapore di quella criptopolitica dalla quale Silvano Panunzio, esponente di punta di quella che potremmo definire “l’ala cattolica” della scuola di pensiero denominata Tradizionalismo Integrale, ci mise in guardia), con l’ovvio corollario di esoterismo ed occultismo utilizzati non per ascendere a livelli di comprensione e consapevolezza maggiori (attenzione: è possibile “farlo”, per quanto la pragmaticità, in quest’ambito, sia poco più di uno stigma, forse con l’esoterismo, certo non con l’occultismo), bensì o per noia o per intenti che ben poco hanno di elevato.

A questa già copiosa quantità di carne al fuoco (modo di dire che suppongo non piacerebbe ai membri della Confraternita della Civetta, associazione culturale che però sembra essere anche ben altro, volontaria o involontaria protagonista di buona parte dei fatti narrati dalla nostra) si aggiungono altri tagli, egualmente succulenti (il riferimento carnivoro farebbe invece molto piacere al protagonista/vittima del tutto, il ferrarese Samuele Benato): un descrittivismo che, anche quando si prolunga, non disturba mai e nemmeno funge da mera cornice alla narrazione; del resto, con buona parte delle vicende ad avere quale teatro il paese dolomitico di Agordo, nel bellunese, sarebbe peccato mortale non indulgere un po’ nella descrizione di quei luoghi densi in egual misura di natura, storia arcana e misteri irrisolti. Ma anche una storia d’amore (o più d’una) sui generis, che mette in confusione il protagonista e altrettanto fa con noi, che come Samuele fino alla fine dell’intreccio ci troviamo a parteggiare ora per qualcuno, ora per qualcun altro, senza che mai ci abbandoni, durante la lettura, la consapevolezza di essere fra le spire di un intricatissimo labirinto, sensazione che, personalmente, non mi ha abbandonato neppure dopo aver riposto il romanzo nel comparto della libreria che la mia maniacalità gli ha assegnato non appena varcata la porta di casa.

Infine, tra riferimenti che mai sfociano nello sterile citazionismo a fior fiore di capolavori cinematografici e letterari, quello che mi arrischio – senza nessun ruolo o titolo che me lo permetta, ma da semplice lettore – a definire uno dei casi letterari di questo 2025, sul vostro comodino ci resterà davvero poco: è quasi fisico il desiderio di proseguire nella lettura, di scoprire come e se la vicenda si evolverà. E state pur certi che ogni minima vostra certezza verrà il più delle volte ribaltata dall’abilissima penna di Juliette Evola, la quale, anche se di Julius non dovesse essere parente, auspico tra cinquant’anni venga ricordata almeno alla stregua di quanto il Barone lo è oggi.

                                                                                                                       Alberto De Marchi